Intervista Intervista a Jürgen Habermas

“I politici hanno gestito male il populismo di destra sin dall’inizio”

Secondo il filosofo filo-europeo tedesco, i partiti democratici europei dovrebbero smettere di trattare coi piedi di piombo i populisti di destra e mostrarsi decisi sui propri valori.

Pubblicato il 3 Gennaio 2018 alle 09:48

Daniel Leisegang: Dopo il 1989, si parlava soltanto della “fine della storia” rappresentata dalla democrazia e dall’economia di mercato, e oggi stiamo assistendo all’emergere di un nuovo fenomeno di leadership autoritaria/populista, da Putin fino a Donald Trump passando per Erdoğan. Chiaramente, una nuova “Internazionale autoritaria” sta raccogliendo sempre più successo nel decidere i temi politici. Il suo esatto contemporaneo Ralf Dahrendorf aveva ragione nel prevedere un XXI secolo autoritario? Possiamo, anzi dobbiamo parlare di cambio epocale?
Jürgen Habermas: Dopo la trasformazione del 1989-90, quando Francis Fukuyama si impadronì dello slogan di “post-storia” come originariamente coniato nel contesto di un feroce genere di conservatismo, la sua reinterpretazione espresse il miope trionfalismo delle élite occidentali che aderirono alla convinzione liberale della predisposta armonia dell’economia di mercato e della democrazia. Entrambi gli elementi caratterizzano la dinamica di modernizzazione sociale ma sono legati agli imperativi funzionali che si scontrano ripetutamente. Il compromesso tra crescita capitalistica e quota della popolazione, accettato soltanto in modo svogliato come socialmente giusto, nell’espansione delle economie altamente produttive può essere raggiunto solamente da uno stato democratico degno di questo nome. Ma un equilibrio del genere, che giustifica il nome di “democrazia capitalista”, costituiva, all’interno di una prospettiva storica, l’eccezione piuttosto che la regola. Questo basta a rendere l’idea di un consolidamento globale del “sogno americano” un’illusione.
Il nuovo disordine globale, rafforzato dall’incapacità di agire degli Stati Uniti e dell’Europa di fronte ai crescenti conflitti globali, è profondamente inquietante e le catastrofi umanitarie in Siria e Sud Sudan ci spaventano tanto quanto gli atti di terrorismo islamista. In ogni caso, non riesco a reperire nel ragionamento che mi ha descritto una tendenza uniforme verso un nuovo autoritarismo, ma piuttosto una varietà di cause strutturali e numerose coincidenze. Ciò che lega il tutto è il nazionalismo che ha cominciato a diffondersi nel frattempo in Occidente. Anche prima di Putin e Erdoğan, la Russia e la Turchia non erano affatto “democrazie senza difetti”. Se l’Occidente avesse perseguito una politica in qualche modo più intelligente, si sarebbero potute impostare relazioni diverse con entrambi i paesi, e le forze progressiste all’interno delle società occidentali si sarebbero rafforzate.
Non stiamo forse qui sopravvalutando le capacità dell’Occidente in modo retrospettivo?
Certamente, considerata la grande varietà dei suoi interessi divergenti, non sarebbe stato semplice per “l’Occidente” scegliere il momento più opportuno per gestire razionalmente le aspirazioni geopolitiche di un superpotenza russa declassata o le aspettative europee verso il suscettibile governo turco. Il caso dell’egocentrico Trump, altamente significativo per tutto l’Occidente, è di diverso tipo. Con la sua disastrosa campagna elettorale, ha portato al culmine un processo di polarizzazione che i Repubblicani hanno diretto con freddo calcolo politico sin dagli anni Novanta e tutto ciò si sta inasprendo così tanto che il “Grand Old Party”, che non dimentichiamo è stato il partito di Abraham Lincoln, ha completamente perso il controllo su questo fenomeno. Questa mobilitazione di rancore ha dato sfogo al distacco sociale di una superpotenza in declino politico ed economico.
Di conseguenza, ciò che avverto come problematico non è tanto il modello di un’Internazionale autoritaria, come lei ipotizza, ma la distruzione della stabilità politica nei nostri paesi occidentali nel loro insieme. Nel giudicare la volontà statunitense di sospendere il suo ruolo di potenza globale sempre pronta a intervenire per ristabilire l’ordine, bisogna tenere sotto controllo lo scenario strutturale, che riguarda l’Europa in maniera simile.
La globalizzazione economica che Washington ha introdotto negli anni Settanta con il suo programma neoliberale ha comportato un relativo declino dell’Occidente, se misurato a livello globale con la Cina e gli altri paesi emergenti del gruppo BRIC. Le nostre società, a livello nazionale, devono affrontare la consapevolezza di questo declino globale, insieme all’esplosiva crescita, indotta dalla tecnologia, della complessità della vita quotidiana. Le reazioni nazionaliste stanno guadagnando consensi in quelle realtà sociali che non hanno mai in assoluto o mai abbastanza beneficiato dell’aumento di prosperità delle grandi economie perché il tanto promesso “effetto a cascata” non è riuscito a diventare realtà nel corso dei decenni.
Anche se non c’è nessuna tendenza inequivocabile verso un nuovo autoritarismo, ci stiamo chiaramente dirigendo verso un forte spostamento a destra, direi verso una rivolta della destra. E la campagna a favore della Brexit costituisce solo l’esempio più evidente di questa tendenza in Europa. Lei stesso ha recentemente affermato di “non tenere in considerazione una vittoria del populismo sul capitalismo nel paese d’origine di quest’ultimo.” Qualunque osservatore dotato di buon senso non può che essere rimasto colpito dalla natura chiaramente irrazionale non solo del risultato del voto ma della stessa campagna. Un elemento è chiaro: l’Europa è sempre più preda di un seducente populismo, da Orbán e Kaczyński a Le Pen e Alternative für Deutschland (AfD). Questo significa che ci stiamo dirigendo verso un periodo in cui la politica irrazionale sarà la norma in Occidente? Alcune parti della sinistra si stanno attrezzato per rispondere al populismo di destra con una versione di sinistra.
Prima di rispondere in modo puramente tattico, dobbiamo prima capire come è potuto accadere che il populismo di destra abbia rubato i tradizionali temi della sinistra. Il summit del G20 di Hangzou, nel settembre 2016, è stato in questo senso molto esplicativo, come possiamo capire dall’allarme, lanciato dai capi di governo riuniti, sul “pericolo da destra” che potrebbe portare i paesi a chiudere le porte, alzare i ponti levatoi e devastare i mercati globalizzati. Questa condizione si sposa con gli incredibili cambiamenti nelle politiche sociali ed economiche che una dei partecipanti, Theresa May, ha annunciato in una delle ultime assemblee del partito conservatore e che ha causato ondate di rabbia, come previsto dai media sostenitori dei mercati. Ovviamente, il primo ministro britannico ha analizzato a fondo le ragioni sociali che hanno condotto alla Brexit. In ogni caso, sta tentando di portare il paese al riparo dai venti del populismo di destra, capovolgendo la precedente linea di partito e attribuendo importanza a uno “stato forte” interventista in modo da combattere tanto la marginalizzazione delle parti della popolazione “lasciate indietro”, quanto le divisioni in aumento all’interno della società. Considerato questo ironico capovolgimento dell’agenda politica, la sinistra in Europa dovrebbe domandarsi come mai il populismo di destra sta riuscendo a vincere fra gli oppressi e gli svantaggiati grazie alla falsa questione dell’isolamento nazionale.
Quale dovrebbe essere la risposta della sinistra di fronte alla sfida della destra?
La domanda è perché i partiti di sinistra non vanno all’attacco contro le ineguaglianze sociali intraprendendo una messa in regola coordinata e internazionale dei mercati non regolati. Come ragionevole alternativa — tanto per quel che riguarda il capitalismo finanziario selvaggio quanto per il programma per un “völkisch” o ritirata della sinistra nazionalista verso la presunta sovranità degli stati nazionali vuota ormai da tempo — vorrei suggerire che esiste solo una forma sovranazionale di cooperazione che persegue l’obiettivo di plasmare una riconfigurazione politica socialmente accettabile della globalizzazione economica. In questo caso la disciplina del trattato internazionale è insufficiente. Mettendo completamente da parte la dubbia legittimazione democratica, le decisioni politiche su questioni di redistribuzione possono essere adottate solo in un limitato quadro istituzionale. In tutto questo, rimane disponibile soltanto il difficile percorso di un’intensificazione e inclusione istituzionale di cooperazioni internazionale democraticamente legittimate. L’Unione europea un tempo rispecchiava questo progetto, e un’Unione politica dell’Eurozona potrebbe ancora raggiungerlo. Tuttavia, gli ostacoli presenti nei processi decisionali nazionali sono piuttosto alti su questo.
Sin dal momento in cui politici socialdemocratici come Bill Clinton, Tony Gerhard Schröder si sono spostati verso la predominante linea neoliberista in politica economica perché era o appariva promettente in senso politico, questi partiti politici impegnati nella “battaglia per il centro” hanno pensato che sarebbe bastato adottare la linea di condotta neoliberale per ottenere la maggioranza dei voti. Questo ha significato accettare crescenti ineguaglianze sociali di lunga durata. Nel frattempo, questo prezzo, ovvero lo stallo economico e socioculturale di parti sempre più vaste della popolazione, è chiaramente salito così tanto che la reazione a tutto ciò è stato lo spostamento verso destra. E dove sennò? Se non si vedono prospettive credibili e costruttive, allora la protesta si ritrae semplicemente su forme espressive e irrazionali.

E i “rischi di contagio” nei partiti tradizionali apparirebbero ancora peggiori dei populisti di destra, in particolare in tutta Europa. Sotto la pressione della destra, il nuovo primo ministro britannico ha adottato una politica inflessibile verso migranti e lavoratori stranieri, che punta a dissuaderli dalla migrazione nel Regno Unito o addirittura espellerli dal paese; in Austria, il capo del governo socialdemocratico vuole ridurre il diritto d’asilo tramite un decreto d’emergenza; e in Francia, François Hollande ha già governato per circa un anno in stato d’emergenza, con grande gioia del Front National. L’Europa è almeno attenta a questa rivolta di destra o i successi repubblicani sono definitivamente intaccati?

La mia opinione è che i politici nazionali hanno gestito male il populismo di destra sin dall’inizio. L’errore dei partiti tradizionali risiede nell’aver riconosciuto il fronte stabilito dal populismo di destra: “noi” contro il sistema. Qui ha poca importanza se questo errore prenda la forma di un’assimilazione a o di un confronto con la “destra”. Pensi allo stridulo ex aspirante Presidente francese Nicolas Sarkozy che ha esagerato rispetto a Marine Le Pen con le sue istanze, o all’esempio del sobrio ministro della giustizia tedesco Heiko Maas che ha voluto a tutti i costi sfidare Alexander Gauland (cofondatore del partito di destra populista Alternative für Deutschland) in un dibattito: entrambi hanno reso più forte l’avversario/a. Li hanno presi sul serio e innalzato i loro profili. Da un anno, in Germania, tutti conosciamo l’ironico sorriso studiato di Frauke Petry (ex leader dell’AfD) e il contegno che mantiene il resto della direzione della sua agghiacciante gang. È solamente ignorando i loro interventi che si può togliere terreno sotto i piedi ai populisti di destra.

Ma questo richiede la volontà di aprire un fronte completamente diverso nell’ambito della politica interna e farlo rendendo il problema citato sopra il punto-chiave della questione: come ci riappropriamo dell’iniziativa politica di fronte alle forze distruttive della sfrenata globalizzazione capitalistica? Invece, la scena politica è dominata dalle sfumature di grigio, dove, ad esempio, il programma pro-globalizzazione della sinistra, che vuole dare consistenza politica a una società globale che cresce unita sul piano economico e digitale, non riesce più a essere distinta dal programma neoliberale di abdicazione politica nei confronti del ricattante potere delle banche e dei mercati non regolati.
Pertanto, sarebbe necessario presentare programmi politici opposti e di nuovo riconoscibili, che includano il contrasto, nel senso politico e culturale, fra l’apertura mentale liberale della sinistra e il tipico vizio delle critiche della destra su una globalizzazione economica senza limitazioni. In poche parole, la polarizzazione politica dovrebbe essere ricristallizzata fra i partiti tradizionali sui temi essenziali. I partiti che garantiscono attenzione ai populisti di destra, invece che sdegno, non dovrebbero aspettarsi che la società civile disdegni le frasi e la violenza della destra. Inoltre, ritengo un pericolo ancora più grande un altro caso di polarizzazione, verso la quale si sta dirigendo la tenace opposizione dentro alla Cdu quando guarda diffidente al periodo post-Merkel. Nella figura di Alexander Gauland (politico di primo piano dentro AfD) questo gruppo vede nuovamente il componente-chiave della corrente conservatrice di Alfred Dregger nella vecchia Cdu della Hesse, o comunque lo considerano sangue del loro sangue, e fantasticano con l’idea di riprendersi i voti persi formando una coalizione con l’AfD.
Anche a livello verbale molto sembra essere sottosopra: i politici sono sempre più accusati di essere “nemici del popolo” e sono apertamente insultati. Lo stesso Alexander Gauland definisce Angela Merkel una “cancelliera dittatoriale”. Sullo stesso livello appare la graduale riabilitazione del “Wörterbuch des Unmenschen” (dizionario del gergo nazista): Frauke Petry vuole recuperare il concetto di “völkisch” per usarlo nel lessico quotidiano, Björn Höcke, un altro esponente di AfD, parla di “entartete Politik” (”politica degenerata”) e a questo proposito una parlamentare Cdu della Sassonia è ricaduta nella retorica nazista del “Umvolkung” (de-germanizzazione) e nessuno di questi episodi ha innescato conseguenze.
L’unica lezione che i partiti democratici possano trarre a riguardo delle persone appassionate a questi termini è di smettere di trattare con cautela questi “cittadini preoccupati” e respingerli bruscamente definendoli per ciò che sono: il terreno fertile adatto alla nascita di un nuovo fascismo. Invece, siamo testimoni per l’ennesima volta del rituale comico, ben praticato nella vecchia repubblica federale pre-1990, di un esercizio obbligatorio di equilibrio: ogni volta in cui è inevitabile parlare di “estremismo di destra”, i politici si sentono in dovere di indicare precipitosamente un corrispondente “estremismo di sinistra”, come se dovessero evitarsi l’imbarazzo.
Come spiega l’influenza del populismo di destra sulla Germania dell’est e la grande quantità di attacchi di estrema destra in quelle zone?
Chiaramente, non dovremmo illuderci sul forte successo elettorale di AfD anche nella parte occidentale della Germania, come dimostrato dai risultati delle elezioni in Baden-Württemberg, anche se la reazione aggressiva del portavoce di AfD Meuthen contro l’eredità della sinistra liberale della generazione del ’68 non fa pensare tanto alla mentalità di un estremista di destra quanto a una caratteristica di lungo corso in quella antica repubblica federale. Nella zona occidentale, i pregiudizi di destra degli elettori AfD sembrano filtrati per lo più attraverso un ambiente conservatore che non ha possibilità di svilupparsi nell’ex Repubblica Democratica Tedesca. Per quanto riguarda l’ovest, bisogna ricordare anche quegli attivisti di destra che, subito dopo l’inversione di rotta del 1990, sono passati in massa dalla vecchia repubblica federale verso est e si sono portati dietro le capacità organizzative richieste. In ogni caso, a giudicare dai famosi dati statistici, una vulnerabilità “non filtrata” verso i vorticosi pregiudizi autoritari e verso la “vecchia immutabilità” è chiaramente maggiore nell’est della Germania. Per quanto questo elemento emergesse dagli ex-non votanti, era potuto rimanere più o meno nell’ombra fino all’arrivo dello stimolo della recente politica sui rifugiati: fino a quel momento, gli elettori erano stati attratti dalla percezione politicamente prevenuta e dalle buone intenzioni a livello nazionale della Cdu o in gran parte catturati dalla Linke, il partito della “Sinistra”. Fino a un punto in cui possa essere servita una buona intenzione. Ma per un corpo politico democratico è consigliabile quando mentalità politiche discutibili non sono nascoste sotto il tappeto per tanto tempo.
D’altro canto, la parte occidentale, ovvero l’ex governo della Germania dell’ovest, che all’epoca definì le modalità di riunificazione e ricostruzione e che ora regge la responsabilità politica delle conseguenze, può finire per essere l’unica garante rispetto a come la storia giudica questi fatti. Mentre la popolazione dell’ex Germania dell’ovest ha goduto delle possibilità derivanti dalle buone condizioni economiche per liberarsi gradualmente, nel corso di decennali discussioni pubbliche, dell’eredità del periodo nazista, delle mentalità contaminate e delle classi dirigenti ancora in carica, la società dell’ex RDT dopo il 1990 non ha avuto l’opportunità di commettere i propri errori e essere obbligata a imparare la lezione di fronte al passato nazista.
Quando poi si parla di politica federale, l’AfD ha spinto soprattutto l’Unione (Cdu/Csu) verso un subbuglio strategico. Pertanto, a fine 2016 alcuni politici della Cdu e della Csu hanno pubblicato una “Aufruf” (dichiarazione d’intenti) formale per una “Leitkultur”, cioè lo slogan politico per difendere il quadro culturale ereditato, con la volontà di impedire che “il patriottismo sia rivendicato dalle persone sbagliate”. Vi si legge: “La Germania ha il diritto di stipulare ciò che dovrebbe essere auto-evidente”. “Il sentimento di radicamento in una patria affettuosamente abbracciata e l’esperienza quotidiana del patriottismo” devono essere promosse. Nella (vecchia) repubblica federale, sulla scia della crescente accettazione della democrazia, la Costituzione rappresenta sempre di più la cultura fondamentale e il suo riconoscimento è diventato la base dell’integrazione di successo. Al giorno d’oggi, stiamo sperimentando la transizione da questa cultura fondamentale di tipo patriottico e costituzionale verso una nuova cultura tedesca convenzionale, fatta di abitudini e usanze, come l’obbligo di stringere la mano quando si saluta qualcuno?
Abbiamo ovviamente dichiarato con eccessiva rapidità che la Cdu di Merkel ha lasciato indietro il remoto dibattito degli anni Novanta. La politica per i rifugiati ha portato in superficie un’opposizione interna che unisce gli eredi dell’ala nazional-conservatrice della vecchia Cdu/Csu federale ai convertiti della Cdu dell’est. La loro “Aufruf” segna il punto di rottura a causa del quale la Cdu potrebbe andare in pezzi se il partito fosse obbligato a decidere fra due linee politiche: organizzare l’integrazione dei rifugiati secondo i principi costituzionali o secondo gli ideali della cultura nazionale maggioritaria. La costituzione democratica di una società pluralista garantisce i diritti culturali delle minoranze, in modo tale che queste ultime possano mantenere il proprio stile di vita culturale nei limiti della legge del paese in cui vive. Di conseguenza, una politica costituzionale di integrazione è incompatibile con l’obbligo legale per gli immigrati di un paese diverso di adattare il loro stile di vita a una cultura maggioritaria onnicomprensiva. Richiede piuttosto la differenziazione tra una cultura maggioritaria che affonda le sue radici nel paese e una cultura politica che accoglie tutti i cittadini in modo egualitario.
In ogni caso, la cultura politica è ancora plasmata da come i cittadini e la loro interpretazione dei principi costituzionali attingono ai contesti storici nazionali. La società civile si deve aspettare che i cittadini immigrati, senza aver la possibilità di farlo rispettare a livello giuridico, crescano all’interno di questa cultura politica. In questo senso, il riepilogo fatto da Navid Kermani, cittadino tedesco di origine iraniana, sulla sua visita all’ex campo di concentramento di Auschwitz e pubblicato dal Der Spiegel è un esempio commovente e illuminante: in tutto il miscuglio di lingue dei visitatori proveniente da vari paesi, lui scelse di unirsi al silenzioso gruppo di tedeschi, ossia i discendenti della generazione colpevole. Chiaramente, non è stato il fatto che il gruppo parlasse tedesco a spingerlo a fare ciò.
Considerato che la cultura politica non rimarrà immobile all’interno di una viva e democratica cultura del dibattito, d’altro canto i nuovi cittadini che arrivano godono tanto quanto gli autoctoni del diritto di portare il proprio contributo nel processo di sviluppo e cambiamento di questa cultura politica comune. Il potere di decisione di questi cittadini ci viene descritto nel modo migliore dagli scrittori, registi, attori, giornalisti e scienziati di successo provenienti dalle famiglie degli ex “lavoratori ospiti” turchi. I tentativi promossi a livello giuridico di conservare una cultura fondamentale nazionale non sono soltanto incostituzionali ma anche irrealistici.
Nella sua intervista su Die Zeit del 7 luglio 2016, lei, in qualità di “lettore impegnato di quotidiani da lungo tempo”, critica una “certa complicità dei mezzi di stampa” senza la quale “la politica della coperta di Merkel per far addormentare tutti” non sarebbe riuscita a espandersi in tutto il paese. È evidente che, a partire dai provvedimenti della cancelliera verso i rifugiati, stiamo sperimentando una nuova polarizzazione. Vede in questo qualche possibilità di pensare finalmente ad alternative politiche?
Data l’ossessione verso l’AfD, temo piuttosto un’ulteriore stratificazione delle differenze con gli altri partiti. Quando parlavo della politica per far addormentare tutti mi riferivo all’Europa. Riguardo al futuro dell’Unione Europea, nulla è cambiato sin dalla Brexit. Per esempio, non leggiamo praticamente nulla sul risveglio del conflitto tra il ministro delle finanze tedesco Schäuble e il Fmi, che è uscito dal programma di aiuti alla Grecia. Se non si agisce per cambiare la rovinosa politica di tagli alla spesa, la prontezza nella cooperazione dentro l’Europa non riuscirà a svilupparsi anche su altre tematiche.
Wolfgang Schäuble, dopo la Brexit, in un’intervista su Die Welt, ha pubblicamente ritirato la sua lungimirante proposta per formare uno nucleo europeo propositivo, progetto preparato da lui e Karl Lamers all’inizio degli anni Novanta. Angela Merkel, che abbiamo imparato a conoscere come una personalità politica piacevolmente razionale a favore del pragmatismo esperto, ma anche come opportunista sul breve termine e guidata dal potere, mi ha sorpreso con la sua politica costruttiva verso i rifugiati. Il suo ultimo viaggio in Africa ci ha dimostrato che possiede la capacità e la prontezza per agire in maniera strategica e sul lungo periodo. Ma cosa significa quando, d’altro canto, e questo si è rivelato vero sin dal 2010, segue una linea politica verso l’Europa nella stretta prospettiva dell’egoismo economico nazionale. Infatti, sembra che la cancelliera pensi solo in termini di interessi nazionali in quella specifica area tematica in cui è compito del governo dare l’impulso per costruire e poi sviluppare l’Ue. La politica miope d’austerità promossa da Merkel, rigidamente fissa sullo status quo, ha impedito il necessario progresso e ha approfondito enormemente le divisioni all’interno dell’Europa.
È lei che ha a lungo auspicato una trans-nazionalizzazione della democrazia, che sta rafforzando l’Ue, per compensare la perdita di potere degli stati nazionali in una società globale altamente interdipendente. Ma appare evidente che il desiderio di rifugiarsi nella bambagia degli stati nazionali stia aumentando sempre più. Considerando l’attuale condizione dell’Ue e delle sue istituzioni, lei vede anche solo la più remota possibilità realistica di combattere contro questa rinazionalizzazione?
I negoziati per la Brexit riporteranno questo tema in primo piano in ogni caso. In realtà, io sostengo ancora la differenziazione interna fra una Euro-Unione politica, in cui i paesi lavorino in modo ancora più stretto fra loro (l’espressione che va di moda ora per questo concetto è Nucleo europeo), e una periferia di stati membri esitanti che possono unirsi al nucleo quando lo preferiscono. Sono così tanti i dati economici e le ragioni politiche che testimoniano a favore di questo sistema che ritengo che i politici sarebbero impiegati meglio se credessero nella capacità di imparare delle persone piuttosto che giustificare la loro rinuncia a plasmare politicamente il futuro con un rassegnato rinvio alle forze sistemiche inalterabili. La carriera di Angela Merkel, con lo stop all’energia nucleare e la sua pionieristica politica verso i rifugiati, offre due notevoli contro-esempi alla tesi secondo la quale non c’è spazio per la manovra politica.

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