Il bluff della sovranità

Da anni gli euroscettici del Partito conservatore britannico ammoniscono che il trattato di Lisbona segna la fine della sovranità nazionale. Quando si tratta di alta finanza o di relazioni con gli Stati Uniti, però, sono sempre pronti a mettere da parte i timori, scrive Seuman Milne sul Guardian.

Pubblicato il 6 Novembre 2009 alle 17:24
Presseurop

Adesso sappiamo quanto vale una “garanzia di ferro” di David Cameron. Il fatto che il leader dei Tory abbiamo rinunciato a onorare la promessa di indire un referendum su “qualsiasi trattato Ue” dovesse scaturire dai negoziati di Lisbona, di sicuro avvalorerà il monito di William Hague che l’Europa è la sua “bomba a orologeria”. Cameron non potrà neppure ricorrere più all'argomento che la sua promessa sul referendum si riferiva soltanto alla prima versione del trattato di Lisbona, quando si parlava ancora di costituzione europea.

Ogni qualvolta gli europei hanno avuto occasione di esprimersi col voto su questo groviglio di poteri sconcertanti e di privilegi per le grandi multinazionali l’hanno sempre respinto, oppure, come nel caso dell’Irlanda, hanno dovuto continuare a votare finché la risposta non è stata quella considerata giusta. Ancora una volta, secondo una tradizione che dura ormai da decenni, le elite europee hanno spazzato via l’opinione pubblica, finendo per imporre l'ordine da loro prescelto. Se non fosse stato per il loro continuo mercanteggiare dietro le quinte, fino a pochi giorni fa c'era la grottesca possibilità che il co-artefice della catastrofe irachena fosse rifilato all’Europa in veste di presidente non eletto.

Adesso che il trattato di Lisbona è stato ratificato, Cameron ha cercato di cancellare il ricordo della sua “garanzia" con una nuova promessa di lottare per riconquistare le libertà e i poteri autenticamente inglesi, riportare in patria l’autorità in tema di società, occupazione e giustizia e promulgare una legge che imponga un referendum in Gran Bretagna su qualsiasi futura modifica che l’Europa dovesse escogitare.

Ma in buona parte è solo apparenza: non c'è alcuna ulteriore modifica costituzionale all'orizzonte. La Gran Bretagna ha già un’efficace opt-out a sua disposizione per ciò che concerne gli aspetti del trattato di Lisbona legati alla giustizia e all’immigrazione. E la prospettiva di un governo Tory che combatte per ogni briciola con l’Unione Europea, che è di fatto popolare in Gran Bretagna, dovrebbe far riflettere meglio ogni nazionalista agguerrito. Davvero Cameron è disposto a ingaggiare battaglia per le ferie di quattro settimane, la parità di diritti dei lavoratori part-time e il congedo parentale concessi da Bruxelles per comprarsi l’acquiescenza dell’unico mercato?

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Forse non stupisce che i leader conservatori abbiano avvertito la necessità di corrompere il loro partito euroscettico abbandonando il principale gruppo europeo di centrodestra per allearsi con la frangia di destra, e stiano adesso lottando per difendere i rapporti con il politico polacco Michal Kaminski - ammiratore del generale Pinochet con una ben documentata storia di fascismo e antisemitismo alle spalle - e con il partito lettone Libertà e Patria, che fa campagna perché sia concessa la pensione ai veterani delle Ss Combattenti.

Malgrado la loro collera, ci sono parecchie interferenze da parte di Bruxelles che i conservatori tollerano senza alcun problema. Per esempio, non criticano il trattato di Lisbona per aver trasformato in obiettivi costituzionali la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici, trasporti ed energia in testa. Da sostenitori ancora più entusiastici rispetto al New Labour dell’ideologia neoliberale su cui questa legge si basa, non c’è da aspettarsi nulla di diverso.

Del resto, il cancelliere ombra George Osborne non si è lamentato neanche per l’intervento di questa settimana di Neelie Kroes – commissario europeo alla concorrenza non eletto – nel sistema bancario britannico. Soprannominato “Steely Neelie” (Neelie d’acciaio), l’olandese, strenuo sostenitore del libero mercato, ha disposto la vendita di centinaia di filiali e di compagnie di assicurazione molto redditizie in cambio del beneplacito di Bruxelles a una seconda, epica operazione di salvataggio della Royal Bank of Scotland già parzialmente nazionalizzata e del gruppo Llyod Banking. Lungi dal criticare questa palese interferenza dei tanto disprezzati burocrati di Bruxelles, Osborne ha applaudito il ruolo dell’Ue e ha proclamato ai quattro venti che smantellare le banche per aumentare la concorrenza è stata una sua idea.

In realtà, è poco verosimile che la vendita indiscriminata possa innescare una grande competizione nel settore bancario britannico, fortemente concentrato, quantunque possa offrire profitti consistenti a società come Santander e Virgin. Ancora una volta, in ogni caso, il governo versa miliardi di sterline in banche di cui è in sostanza proprietario, rifiutandosi però di assumerne il controllo e di gestirle nell’interesse pubblico. Nel momento in cui le banche di proprietà statale dovrebbero diventare il motore della ripresa, espandendo il credito per vincere la recessione, i prestiti alle banche si stanno invece contraendo, frenando la crescita.

Le critiche nei all’Unione Europea sono state dominate per troppo tempo da un euroscetticismo fasullo e sciovinista, che ignora gli interessi neoliberali che hanno guidato e ispirato il suo sviluppo. L’atteggiamento assunto da Cameron ieri in relazione ai “referendum lock” e a una proposta di legge per scongiurare il trasferimento di altri poteri all’Ue non fa nulla per mettere in dubbio tutto ciò. Come il New Labour, i Tory accettano di buon grado la perdita di sovranità democratica o nazionale, quando si tratta del potere delle multinazionali o degli Stati Uniti.

OPINIONE

Un referendum ci salverà

Con la ratifica del trattato di Lisbona, il leader conservatore David Cameron, probabile successore di Gordon Brown alla guida del governo britannico nel 2010, è stato costretto a rinnegare l'impegno a indire un referendum sul documento. Una tale imbarazzante retromarcia non è stata priva di conseguenze: ha infatti provocato le dimissioni di due parlamentari conservatori. Sul Daily Telegraph uno di loro, Dan Hannan, ha spiegato le sue ragioni.

Il trattato di Lisbona, sostiene Hannan, minaccia "la legittimità delle nostre istituzioni". "Su 646 parlamentari", ricorda, "638 sono stati eletti con la promessa del referendum sulla nostra adesione alle sue riforme". Raccogliendo l'appello del leader del suo ex partito, Hannan si schiera per la concessione di potere vincolante a "referendum, iniziative civiche e tutti gli altri strumenti della democrazia diretta". Una consultazione sull'Europa dovrà andare "molto a fondo" e "decidere una volta per tutte se il nostro paese debba rimanere subordinato o diventare indipendente".

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