Le rovine del palazzo Darul-Aman di Kabul, gennaio 2010 (AFP)

Quadrare il cerchio è impossibile

L'occidente dovrebbe smettere di vedere l'Afghanistan alla luce delle beghe di politica interna, e di illudere sé stesso e i suoi cittadini di poter raggiungere obiettivi inconciliabili tra loro.

Pubblicato il 29 Gennaio 2010 alle 16:25
Le rovine del palazzo Darul-Aman di Kabul, gennaio 2010 (AFP)

Tutti parlano dell'Afghanistan, ma ognuno pensa solo ai propri interessi: in Germania la guerra nell'Hindukush è solo un altro campo di battaglia per le dispute di politica interna. Gli esponenti della chiesa stanno prendendo parte a un dibattito che negli ultimi otto anni li aveva lasciati piuttosto indifferenti. I sostenitori della Nato vedono la credibilità dell'organizzazione a rischio. La cancelliera Merkel si muove sul filo del rasoio politico, e il suo ministro della difesa sarà indagato per aver nascosto la verità sulla strage di Kunduz del 4 settembre scorso, alimentando nuove polemiche.

Ma tutto ciò ha poco a che vedere con l'Afganistan e con gli afgani. Se si pensa a tutti i morti che dal 1979 sono caduti nell'Hindukush, sarebbe il momento di concentrarsi sull'essenziale, anche perché i paesi occidentali – Germania in testa – sono immersi fino alla gola nel pantano afgano. Bisogna chiedersi cos'è davvero possibile ottenere, e cosa no. Il quadrato magico afgano è composto dai seguenti punti: pace e “nation building”; democrazia e stato di diritto, inclusi quelli delle donne; sviluppo del territorio; e fine dell'ingerenza delle potenze straniere, che da secoli si contendono il dominio sul paese. Come insegnano le teorie economiche, questi quattro obiettivi non possono essere raggiunti contemporaneamente. Non potremo risolvere tutto, perché semplicemente non è possibile.

Una generazione perduta

Punto primo: chi vuole la pace, il “nation building” e la riconciliazione deve avviare il dialogo con i fondamentalisti e i tradizionalisti. Insieme costituiscono la maggioranza. E questo significa – punto secondo – che la democrazia e lo stato di diritto dovranno avere in larga parte un'impostazione islamico-tradizionalista. Per le donne sarà dura: ottenere istruzione, parità di lavoro e diritto a vivere senza il burka sarà difficile con i tradizionalisti, e con i taliban quasi impossibile. Punto terzo: sviluppo nazionale. Potrà funzionare solo se gli anziani delle comunità e i radicali avranno la loro parte; dove non verranno coinvolti, non si potrà costruire niente. Gli anziani sono tradizionalisti fino al midollo, i taliban notoriamente non sono dei democratici. Chiunque vorrà costruire qualcosa dovrà scendere a patti con loro, a discapito dei numerosi afgani “moderni”. Punto quarto: l'ingerenza delle potenze straniere. Finirà solo quando non ci sarà più nessun gruppo afgano convinto di aver bisogno di aiuti dall'esterno, sotto forma di armi. La premessa necessaria sarebbe la riconciliazione e una spartizione equa del potere: vedi sopra.

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In breve, i quattro obiettivi si contraddicono. Per ottenere qualcosa saranno necessari compromessi, rinunce e nuove priorità. Le guerre civili finiscono solitamente con una parte che prende il sopravvento sull'altra e inizia ad esercitare pienamente il potere. Il timore che l'Afghanistan ricadrebbe nella guerra civile se le truppe straniere lasciassero il paese è una vecchia storia: la guerra civile non si è mai interrotta. Per questo, frasi come “non lasceremo più il paese” suonano false come le speranze di una vittoria militare sui fondamentalisti islamici. In un modo o nell'altro, alla fine i taliban avranno la loro parte di potere. Sono i figli di una generazione perduta: cresciuti nella miseria dei campi profughi del Pakistan, a malapena hanno ricevuto un'istruzione, a parte il Corano imparato a memoria. Offrire loro una “exit strategy” o dei posti di lavoro suona bene, ma ci vorranno degli anni, e molti rimarranno scettici. Una generazione perduta rimane sempre una generazione perduta. L'Afghanistan ha bisogno di più tempo di quanto non contemplino i calcoli di politica interna di Angela Merkel. (nv)

Coalizione

La guerra ha sfinito gli alleati

Dopo otto anni di guerra l'opinione pubblica europea è stanca. In Germania il governo si accinge a chiedere al parlamento l’autorizzazione per inviare altri 850 uomini in Afghanistan, ma secondo gli ultimi sondaggi due terzi dei tedeschi vorrebbero il ritiro dei 4.280 soldati schierati da Berlino. In Francia una parte dell’opposizione manifesta dubbi sull’opportunità dell’intervento e rifiuta di mandare rinforzi. I Paesi Bassi di recente hanno annunciato che nel 2010 avrebbero voluto lasciare l’Afghanistan. Perfino l’opinione pubblica britannica, che finora si era allineata al suo governo, comincia ad apparire sempre più recalcitrante.

“Tutti i paesi europei hanno calibrato la loro politica in Afghanistan in funzione del loro rapporto con gli Stati Uniti, invece che rispetto ai loro interessi e ai loro mezzi”, sostiene Nick Witney, ex direttore dell’Agenzia europea della difesa. Fatta eccezione per gli eserciti britannico, tedesco e francese, che hanno inviato rispettivamente 10mila, 4.280 e 3.750 uomini, il contributo dei paesi più piccoli è così irrisorio (250 uomini per l’Albania, 50 per la Finlandia, 10 per la Bosnia) che complica piuttosto che semplificare il compito della Nato, senza contare i problemi linguistici di una coalizione formata da 43 paesi, e i “caveat”, le restrizioni imposte da alcune capitali alle loro forze armate sul teatro delle operazioni. Per l’esercito statunitense gestire alcuni contingenti europei è un vero rompicapo. È pur vero che gli statunitensi, che presto disporranno di centomila uomini a fronte di meno di 40mila europei – hanno maggiormente a cuore il significato politico della partecipazione dei loro alleati che la loro efficacia militare. (ab)

Isabelle Lasserre, Le Figaro.

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