Attualità Vertice dell’eurozona

Crescita, non basta la parola

Nelle ultime settimane quasi tutti i leader europei hanno sposato la causa dello sviluppo economico. Ma per tradurlo in realtà servono progetti concreti: i fondi per le infrastrutture sono un esempio, ma non sempre funzionano.

Pubblicato il 23 Maggio 2012 alle 16:07

Non si può veramente parlare di vertice di crisi per la riunione informale dei capi di governo dell’Unione europea a Bruxelles del 23 maggio. Ma con la Grecia sul punto di lasciare la zona euro, con un sistema bancario spagnolo sull’orlo del fallimento, con una disoccupazione record nell’Ue e con un’attività economica che continua a contrarsi in Europa, si può comunque parlare di vertice in periodo di crisi.

Per Herman van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, questo vertice andrà messo sotto il segno della crescita. A quanto pare questa è la nuova parola magica di Bruxelles: quasi tutti gli interlocutori più importanti in Europa hanno sottolineato la necessità della crescita economica. Il presidente francese François Hollande ne ha fatto un tema portante della campagna elettorale che gli ha permesso di battere Nicolas Sarkozy. José Mauel Barroso, il presidente della Commissione europea, pensa già alla missione che dovrebbe avere Bruxelles: una politica di grandi progetti infrastrutturali sotto la direzione della sua commissione, che dovrebbero rianimare l’economia europea.

Tutti sono d’accordo nel dire che una crescita più forte potrebbe contribuire a risolvere la crisi del debito. Il problema è sapere se i capi di governo saranno in grado di accelerare il ritmo della crescita. L’Economist paragona la crescita economica alla pace nel mondo: tutti sono favorevoli ma non riescono a mettersi d’accordo su come ottenerla.

Neanche l’economia offre una soluzione chiara. Da quando la crisi finanziaria è scoppiata nel 2008 in seguito al fallimento della Lehman Brothers, fra gli economisti infuria il dibattito su come uscire dalla crisi. In linea di massima si individuano due grandi tendenze. Da un lato i sostenitori dell’adozione di misure di rilancio su vasta scala, dall’altro chi è favorevole al rigore.

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Il messaggio di Angela Merkel sulla necessità che i potere pubblici riducano i loro deficit è giudicato troppo dogmatico e i suoi detrattori fanno osservare che i problemi di molti paesi dell’Europa meridionale - in particolare Grecia e Spagna - non faranno che aumentare. Per i fautori della crescita imporre delle misure di rigore in periodo di recessione non fa che accrescere il disagio economico.

Il principale difensore di questa teoria è il premio Nobel americano Paul Krugman. Nei suoi articoli sul New York Times l’economista critica i capi di governo europei, che credono di poter generare la crescita economica solo con il rigore. In realtà questa visione moralista non sta in piedi, osserva Krugman, e prima l’Europa abbandonerà questa strategia meglio sarà. I risultati delle elezioni in Francia e in Grecia non lo hanno sorpreso, dimostrano anzi che la popolazione europea ha un’idea migliore per uscire dalla crisi rispetto alla maggioranza dei responsabili politici.

Per chi invece è contrario a una politica di rilancio, l’esempio del Giappone la dice lunga. Questo paese infatti si trova dall’inizio degli anni novanta in una crisi simile a quella sperimentata dagli Stati Uniti e dall’Europa dal 2008. Le autorità giapponesi hanno cercato di uscire dalla crisi adottando una politica di stimolo. Ma tutti i capitali investiti non hanno impedito al Giappone di registrare negli ultimi venti anni un bassissimo tasso di crescita, che regolarmente fa ricadere il paese nella recessione.

Tuttavia i sostenitori della crescita sottolineano che i poteri pubblici giapponesi sono intervenuti troppo tardi. In realtà nei primi anni successivi allo scoppio della bolla le autorità hanno applicato una politica di rigore, simile a quella adottata oggi in Europa.

Ponti verso il nulla

Ma anche se tutti fossero d’accordo sul fatto che le misure di rigore in periodo di recessione sono controproducenti, si dovrebbe decidere a chi attribuire i fondi supplementari per rilanciare l’economia. Gli avversari di questa politica affermano che i sostenitori del rilancio economico si limitano a dire che per dinamizzare l’economia lo stato deve adottare una politica di rilancio. Ma per che cosa? Lo stato non ha alcuna attività produttiva al di fuori delle infrastrutture come strade, dighe e porti. Del resto è proprio attraverso questi lavori che i poteri pubblici sostengono l’economia. Ma in siamo sicuri che le cose andranno meglio?

Il ponte costato due miliardi di dollari al Giappone per facilitare l’accesso a un’isola di 800 abitanti è un esempio famoso. In questo modo lo stato ha affidato a un certo numero di imprese un contratto redditizio e ha creato temporaneamente dei posti di lavoro, ma non è bastato a stimolare l’economia. Ci si può inoltre chiedere se questi progetti siano in grado di far ripartire l’economia o se gli operai - una volta finito il ponte o quando lo stato non avrà più soldi - si ritroveranno di nuovo disoccupati.

In realtà in Europa questo genere di questioni non è sempre stato al centro di discussioni. La storia dell’Europa è piena di esempi del genere: le autostrade in Spagna e in Portogallo su cui i turisti viaggiano verso le spiagge sono state finanziate soprattutto con i fondi europei. Le regioni povere continuano a ricevere i fondi strutturali della Commissione europea. E i piani per stimolare la crescita in Europa vi assomigliano molto: fondi supplementari per la Banca di investimento europea per finanziare grandi progetti, fondi supplementari per la Commissione per permetterle di estendere i lavori attuali.

Ma se vogliono avviare una politica di spese per il rilancio, i capi di governo dovranno dimostrare di essere convinti che queste misure basteranno a stimolare la crescita economica in Europa.

Economia

L’Ocse teme un circolo vizioso

In un rapporto pubblicata alla vigilia del Consiglio europeo del 23 maggio, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) mette in guardia gli europei contro la minaccia di una “grave recessione” all’interno dell’eurozona, riferisce la Süddeutsche Zeitung:

La debole congiuntura e il fragile sistema finanziario rischiano di mettere in moto un circolo vizioso che potrebbe colpire persino la Germania, l'allievo modello de’Europa. […] La forza economica potrebbe aumentare dello 0,9 per cento nel 2013, ma soltanto se la crisi non peggiorerà.

L’Organizzazione suggerisce agli stati in difficoltà di moderare le loro politiche d’austerity, come sottolinea Die Welt:

L’Ocse esige che i governi degli stati in crisi trovino soluzioni sociali complementari alla loro politica di riforme, tenendo in considerazione gli elementi più deboli della società. Negli stati con una crescita stentata, i governi dovrebbero allentare l’austerity per evitare un ulteriore degrado dell’economia.

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