Krugman a Princeton nel 2008

Paul Krugman: “L’euro è campato in aria”

La moneta unica sta scontando oggi i suoi difetti di fabbricazione. Ma secondo il premio Nobel per l’economia l’Europa può uscire dalla crisi accettando un po' d'inflazione e mettendo da parte l'austerity.

Pubblicato il 6 Settembre 2012 alle 15:51
Krugman a Princeton nel 2008

Il suo libro Fuori da questa crisi, adesso! è un’arringa contro la politica del rigore e il dogma della lotta al deficit. Secondo lei l’Europa ha sbagliato strategia?

Tutto ha avuto inizio dalla Grecia. Nessuno può negare che Atene avesse un problema di disciplina di bilancio e avesse enormi responsabilità per i propri insuccessi. Ma nel panico abbiamo trasformato quel paese nella causa della crisi europea. Ciò era compatibile con la tendenza delle banche centrali a dare un giro di vite e a puntare il dito contro il lassismo. Rifletteva inoltre l’inflessibilità dei tedeschi, sempre pronti ad accusare gli altri di non essere virtuosi quanto loro. Ma così si dimentica che il caso della Grecia è unico e isolato. È stato fatto di tutte le erbe un fascio per giustificare il dogma del rigore. Qualsiasi altro punto di vista è stato immediatamente eliminato dal dibattito.

Quindi è colpa dei tedeschi?

Da un punto di vista storico il loro comportamento si spiega con la fobia dell’inflazione, considerata la fonte di tutti i guai del passato. Sembrano però aver cancellato dalla loro memoria collettiva tutte le sofferenze provocate dalle terribili politiche deflazionistiche degli anni trenta. La loro influenza alla Bce ovviamente è dovuta alla loro posizione dominante in Europa e con l’ambizione originaria di fare di questa istituzione un argine contro l’indisciplina e l’inflazione. […] La Germania è il grande creditore di un’Europa che ha effettivamente conosciuto un periodo di prosperità. Sarei stato curioso, tuttavia, di osservare quali rimedi sarebbero stati proposti nel caso in cui, per esempio, i flussi di capitale fossero arrivati dalla Spagna verso il settore immobiliare tedesco, e non viceversa.

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Era euroscettico sin dall’inizio?

Sì, penso che l’euro fosse un’idea sentimentale, un bel simbolo di unità politica. Ma una volta abbandonate le valute nazionali avete perso moltissimo in flessibilità. Non è facile rimediare alla perdita di margini di manovra. In caso di crisi circoscritta esistono due rimedi: la mobilità della manodopera per compensare la perdita di attività e soprattutto l’integrazione fiscale per ripianare la perdita di entrate. Da questa prospettiva, l’Europa era molto meno adatta alla moneta unica rispetto agli Stati Uniti. Florida e Spagna hanno avuto una stessa bolla immobiliare e uno stesso crollo. Ma la popolazione della Florida ha potuto cercare lavoro in altri stati meno colpiti dalla crisi. Ovunque l’assistenza sociale, le assicurazioni mediche, le spese federali e le garanzie bancarie nazionali sono di competenza di Washington, mentre in Europa non è così.

Come giudica la risposta europea alla crisi ?

Io suggerisco ai paesi che ancora possono scegliere di non ricorrere alle politiche di austerity. Né la Spagna né la Grecia potevano sottrarsi alle richieste tedesche e accollarsi il rischio di farsi tagliare letteralmente i viveri, ma dal mio punto di vista la Francia non si trova in una situazione così critica e non ha altrettanto bisogno di una politica di rigore.

Tuttavia occorre conservare la fiducia dei mercati. Come?

La risposta è monetaria e passa dalla Banca centrale europea. Immagino da un lato acquisti consistenti di obbligazioni spagnole e italiane per arginare l’impennata dei tassi di interesse, e dall’altro il segnale di una politica più morbida della Bce, la promessa di non alzare i tassi al minimo segnale di inflazione e la scelta di obiettivi realistici, come il 2 o 3 per cento di inflazione a medio termine, invece dello 0-1 per cento come oggi.

E come vede la Grecia?

Non vedo come questo paese possa restare nell’euro. É praticamente impossibile. La sua uscita, tuttavia, causerebbe un prelievo in massa dei depositi delle banche spagnole e italiane, al quale la Bce dovrebbe assolutamente rispondere tramite un apporto illimitato di liquidità. In caso contrario nel giro di due settimane la Bundesbank getterebbe la spugna, e quella sarebbe la fine dell’euro.

Quali sarebbero le conseguenze di una scomparsa della moneta unica?

Basta pensare ai debiti contratti in una valuta che non esiste più. Credo che la zona euro precipiterebbe in una grave recessione per un anno intero prima che i paesi trovino il modo di riprendere i loro scambi e, nel caso della Spagna e dell’Italia, di recuperare un po’ di competitività. Dal punto di vista politico sarebbe grave: il fallimento del più grande progetto della storia e il discredito gettato sui leader implicati nel mantenimento del vecchio sistema innescherebbe insurrezioni populiste e nazionaliste.

Quali soluzioni raccomanda per i paesi del sud?

Di norma suggerirei una svalutazione interna. In linea di principio una riduzione dei salari permetterebbe di recuperare competitività. Ma nessun paese, neppure l’Irlanda o la Lettonia, è riuscito davvero a ottenere una riduzione effettiva dei salari del settore privato. D’altro canto la deflazione aggrava il peso del debito privato in euro. Se a questo aggiungiamo il rischio di fuga dei capitali e l’instabilità dei governi incaricati di prendere queste decisioni, ecco che si arriva a un'impasse. I salari spagnoli oggi troppo alti del 30 per cento se paragonati a quelli dei tedeschi. Invece di ridurli con la forza – cosa politicamente impossibile – perché non lasciare che i salari al di là del Reno aumentino, per risollevare la competitività della Spagna? Ciò comporterebbe un allentamento della politica monetaria, e sicuramente una maggiore inflazione in Germania.

Quale futuro prevede per la zona euro?

Se la Bce prenderà i provvedimenti giusti ci si può attendere un miglioramento tra tre-cinque anni. Ma l’Europa sarà sempre fragile. La sua moneta è un progetto campato in aria e lo resterà fino alla creazione di una garanzia bancaria europea. Fino a quel momento il sistema potrà sopravvivere più comodamente accettando più inflazione, che agisca come un lubrificante. Ricordiamoci però una cosa: l’Europa non è in declino. È un continente produttivo e dinamico. Ha soltanto sbagliato a scegliersi la propria governance e le sue istituzioni di controllo economico, ma a questo si può sicuramente porre rimedio.

Paul Krugman

Premio Nobel e divulgatore

Paul Krugman (1953) è un economista statunitense. Dal 1999 è uno degli editorialisti di punta del New York Times. Nel 2008 ha vinto il premio Nobel per l'economia per le sue opere sulla globalizzazione. Professore di economia e di relazioni internazionali all'università di Princeton, è autore di una ventina di libri sul commercio e sulla finanza internazionale. Collabora con le riviste Foreign Affairs, [Harvard Business Review](http://Harvard Business Review) e Scientific American. Fin dagli anni novanta Krugman ha acquisito fama internazionale per i suoi saggi di divulgazione, che hanno fatto di lui uno degli economisti più influenti del suo tempo.

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