Alexander Lukashenko a Minsk, 23 settembre 2012

Faccia a faccia con Lukashenko

Il presidente bielorusso offre ai suoi cittadini istruzione e sicurezza in cambio della rinuncia alla libertà politica. In una rara intervista giustifica le sue scelte e attacca l’ipocrisia dei suoi critici.

Pubblicato il 23 Ottobre 2012 alle 11:16
Alexander Lukashenko a Minsk, 23 settembre 2012

Se è vero che si può giudicare un uomo dalle persone a cui si accompagna, Alexander Lukashenko – presidente della Bielorussia da ormai 18 anni – dà segnali preoccupanti. Descrive infatti Bashar al Assad, il presidente siriano responsabile dei massacri di Houla e Daraya, come una persona “magnifica”, un “uomo di grande civiltà, un vero europeo”. Di tanto in tanto fa anche il nome del colonnello Gheddafi e di Saddam Hussein. Seduto nella fasulla grandeur del suo ufficio di Minsk, Lukashenko rammenta le piacevoli chiacchierate che un tempo faceva con l’ex dittatore libico – “Gli dicevo: ‘Muammar, devi risolvere le tue questioni in sospeso con l’Europa!’ E lui mi raccontava dei suoi rapporti con Sarkozy” – e usa un tono più cupo ricordando come l’occidente si sia avventato contro il suo vecchio amico iracheno.

“Gli inviati americani vennero a trovarmi prima della crisi in Iraq e mi chiesero di dichiarare che in quel paese c’erano armi nucleari. Io rifiutai. Aggiunsero anche che le cose sarebbero andate bene per la Bielorussia in termini di investimenti e cose del genere. Bastava solo che io li appoggiassi. Io risposi che non potevo farlo, perché sapevo che in Iraq non c’erano armi nucleari. La loro risposta fu: ‘Ti crediamo, ma la macchina di guerra si è già messa in moto e sta già andando a pieno regime’. Vi giuro che questa conversazione si svolse davvero: parlammo di queste cose proprio in questa stanza”.

Detto ciò, Lukashenko si appoggia allo schienale e mi scruta fisso. Nel caminetto un finto fuoco lancia bagliori, e i tronchi di plastica gettano sul lato sinistro del suo volto una luce febbrile. “Qui si stanno usando due pesi e due misure”, insiste, a parziale giustificazione. “Gli americani vogliono trasformarci in una democrazia. Che vadano a democratizzare l’Arabia Saudita! Sembriamo forse l’Arabia Saudita? No, assolutamente! Perché allora non cercano di democratizzare quel paese? Eh, certo, ‘perché è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana’. Voi siete dei banditi, dei banditi democratici. Avete distrutto migliaia, forse milioni di vite” [in Iraq e in Afghanistan]. Poi a voce più alta esclama: “Io subisco questa democratizzazione con il manganello dell’occidente che mi picchia in testa tutti i santi giorni. Chi ha mai bisogno di una democrazia di questo tipo?”.

Il totalitarismo è ancora prevalente nei paesi dell’ex Unione Sovietica. Negli anni trascorsi da quando è stato eletto nel luglio 1994, Lukaschenko ha ferocemente consolidato il suo potere – seppure con una certa abilità politica –esautorando il parlamento e il ramo giudiziario, e al contempo imbavagliando i media.

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Alla fine del 2010 si è presentata una speranza di disgelo quando, in preparazione al voto per la presidenza a dicembre, furono allentate alcune restrizioni per consentire la candidatura di ben nove esponenti dell’opposizione, cosa mai accaduta in passato. Ma la speranza non è sopravvissuta al giorno delle elezioni. Quando i dimostranti si sono riuniti per protestare contro la vittoria di Lukashenko – contestat dagli osservatori internazionali – i servizi di sicurezza sono stati sguinzagliati.

Lukaschenko è irremovibile: “A differenza del Regno Unito, della Francia o dell’America, noi non abbiamo mai utilizzato i cannoni ad acqua per disperdere le folle di dimostranti. Non li abbiamo utilizzati neppure quando hanno dato l’assalto al palazzo del governo e hanno sfondato il portone, mandato in frantumi le finestre e cercato di occupare il parlamento. Non abbiamo usato nemmeno i lacrimogeni. Abbiamo semplicemente fatto intervenire la polizia e le forze speciali. Gli astanti sono scappati e sono rimasti soltanto gli attivisti. Ne abbiamo messi dentro 400, quelli che avevano sfondato il portone”.

Nel suo rapporto annuale Amnesty International rivela recenti denunce di casi di tortura e di maltrattamenti in Bielorussia, come pure la carcerazione di centinaia di migliaia di persone per le “proteste silenziose” con le quali volevano dimostrare la loro opposizione al governo ritrovandosi in luoghi pubblici e poi applaudendo a lungo o facendo squillare le suonerie dei loro telefoni cellulari. Human Rights Watch avvisa che adesso si stanno espellendo dalle università gli studenti che criticano il regime di Lukaschenko. Anche i funzionari civili starebbero perdendo il posto di lavoro per questo stesso reato.

Da un punto di vista economico la Bielorussia ha avuto come sempre un buon rendimento sotto la sua guida. È rimasta uno degli stati ex sovietici ad avere i migliori risultati secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, e nel 2005 l’Fmi ha confermato che nei sette anni precedenti il governo di Lukaschenko aveva dimezzato il numero delle persone in stato di indigenza e mantenuto una distribuzione del reddito del paese tra le più eque nei paesi della regione. In Bielorussia l’assistenza sanitaria è gratuita e l’istruzione universale.

Tutto ciò è stato ottenuto in stile sovietico, mantenendo l’80 per cento delle industrie e il 75 per cento delle banche nelle mani dello stato. È stato ottenuto, sempre in perfetto stile sovietico, anche a spese delle libertà fondamentali dell’individuo. Arrivare a Minsk è come sbarcare su un altro pianeta, un mondo che, quanto meno nel resto dell’ex Unione Sovietica, è scomparso venti anni fa.

Strade pulite

Ero ancora un bambino quando l’Urss si sgretolò, ma ricordo ancora molto bene, soprattutto se lo paragono a ciò che accadde in seguito, quanto fossero pulite le strade, e quante poche automobili vi circolassero. Minsk è così: pulitissima e tirata a lucido, ma vuota. I ricordi che evoca sono accentuati ancor più dal suo aspetto: ricostruita quasi interamente dal lavoro dei prigionieri di guerra tedeschi dopo essere stata distrutta durante la seconda guerra mondiale, la città presenta interi quartieri con file e file di condomini eleganti allineati in stile staliniano lungo viali spazzati dal vento. Sembra una vecchia foto nell’album dei miei genitori.

La somiglianza, tuttavia, non è soltanto “estetica”, ma si evince anche dall’impronta politica: gli agenti della sicurezza che perlustrano e pattugliano in borghese gli aeroporti, i luoghi pubblici e perfino alcuni bar; la posizione centrale che occupano i servizi di sicurezza – in Bielorussia sono chiamati ancora Kgb – con il loro quartiere generale neoclassico che occupa un intero isolato proprio nel cuore della capitale; e la statua di Lenin, collocata in posizione sopraelevata.

La crisi globale dell’economia ha colpito duramente il paese e messo in pericolo il “miracolo bielorusso” che Lukaschenko va sbandierando da tempo. La premessa della sua legittimazione al potere da sempre sta proprio in questa sorta di contratto sociale: egli garantisce assistenza sanitaria, istruzione e sicurezza elevate in cambio della rinuncia ad alcuni diritti politici. Al momento la moneta locale è stata svalutata tre volte e l’inflazione si è impennata. I sussidi per il gas proveniente da Mosca – un caposaldo decisivo per tenere a galla l’economia del paese – sono stati messi a rischio quando la Russia ha improvvisamente aumentato i prezzi. Per potersi garantire gli sconti in futuro Lukaschenko ha dovuto autorizzare la vendita della Beltransgaz, uno dei gioielli dello stato bielorusso, alla Gazprom.

È proprio lo scontento nato dalle difficoltà di questi tempi duri ad aver innescato la repressione, di giorno in giorno più vigorosa. Il fatto che l’opposizione abbia spesso fatto ricorso alle “proteste silenziose” è una reazione alla velocità con la quale le autorità hanno dato il via alla repressione di ogni dimostrazione nella quale si scandivano slogan. Ma neppure questo è bastato a proteggere i dimostranti. Su YouTube chiunque può vedere in che modo la polizia disperda questi raduni.

Quando gli rivolgiamo domande su questa sua condotta, Lukashenko esclama: “E allora il cattivo sarebbe Lukashenko! Esca, vada fuori, si guardi intorno: è tutto pulito, lindo, e in giro si vede soltanto gente normale. Non c’è modo per un leader di riscuotere almeno un po’ di merito per tutto ciò?”. Sono stati commessi errori, allora? Avrebbe fatto qualcosa di diverso nei venti anni circa nei quali è stato al potere? “Non ci sono stati errori sistematici”, mi sento rispondere. “E infatti non ne ricordo”.

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