Pechino. Una scultura di Yue Minjun vicino a un cantiere.

Non abbiamo paura della Cina

Il gigante asiatico cresce a vista d'occhio ed è ormai la seconda economia del mondo. Ma non è il caso di allarmarsi troppo: la sua crescita è destinata a rallentare, e l'Europa è già riuscita a superare la concorrenza orientale.

Pubblicato il 31 Agosto 2010 alle 13:18
Pechino. Una scultura di Yue Minjun vicino a un cantiere.

Da qualche settimana la Cina è ufficialmente la seconda potenza economica del mondo: durante il secondo trimestre il paese ha prodotto più beni e servizi del Giappone. Solo gli Stati Uniti fanno meglio, ma Washington non deve farsi troppe illusioni: con una crescita media del 4,25 per cento, secondo Goldman Sachs, nel 2027 l'economia statunitense dovrà piegarsi di fronte a quella cinese, la cui crescita negli ultimi dieci anni è stata raramente al di sotto del 10 per cento. Il paese produce oggi circa cento volte la quantità di beni e servizi che produceva nel 1978. Un risultato che significa una crescita media di oltre il 14 per cento annuo.

Cifre che fanno paura. La battuta "God made heaven and earth, and everything else is made in China" [Dio ha fatto il cielo e la terra, e tutto il resto è made in China] non può più passare inosservata. La Cina è oggi il più grande mercato automobilistico del mondo. Dall'anno scorso vi si vendono più macchine che negli Stati Uniti. E attualmente il paese è anche il più grande esportatore del mondo, avendo superato la Germania.

Sul mercato internazionale delle materie prime nessun paese compra più acciaio o rame della Cina. E di recente si è visto anche che Pechino consuma più petrolio di qualunque altro paese. In molti settori la Cina progredisce irresistibilmente, e quando non dispone della tecnologia richiesta la compra, come nel caso della Volvo rilevata dalla cinese Geely.

Ma tutto ciò deve farci paura? Non avevamo già paura negli anni ottanta, quando l'economia giapponese conquistava inesorabilmente terreno e il settore automobilistico in Europa e America sembrava condannato a una rapida estinzione? In realtà le case francesi e tedesche si sono riprese, rafforzando i loro punti forti – design, tecnologia, immagine di marca – e lavorando per migliorare i punti deboli – la qualità e la produttività. La sfida era enorme, ma le marche europee ne sono uscite più forti di prima.

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La stessa cosa sta succedendo con la Cina. Il paese inonda il mondo di tessuti, mobili, prodotti elettronici, vestiti a buon mercato. Un fattore che presenta sicuramente dei vantaggi. Senza la Cina le nostre magliette, le nostre scarpe e i gadget della Apple ci costerebbero molto più cari. A breve e medio termine dobbiamo rallegrarci di questa formidabile crescita cinese. Senza di essa l'economia mondiale sarebbe ancora in crisi. L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) stima che quest'anno la Cina rappresenterà un terzo della crescita mondiale.

Piedi d'argilla

Per ora la produzione cinese è ancora complementare con quella occidentale. I prodotti che richiedono molto lavoro manuale relativamente poco qualificato sono fabbricati in Cina. Per le cose un po' più complesse, invece, la produzione rimane in occidente. Ma per quanto tempo ancora sarà così? La Cina sforna ogni anno più laureati in ingegneria che Stati Uniti ed Europa messi insieme.

È anche qui che va cercata la grande differenza con il Giappone degli anni settanta e ottanta. La popolazione cinese è dieci volte maggiore rispetto a quella giapponese e questo fornisce al paese un potenziale molto più grande di qualunque altro paese. Ma le dimensioni non sono tutto, osserva Carsten Brzeski della banca Ing, "altrimenti il Belgio non avrebbe mai potuto sopravvivere tra vicini molto più grandi come la Germania e la Francia".

La Cina è ancora un colosso dai piedi di argilla. È diventata la seconda economia del mondo, ma è anche un paese gigantesco. Per pil pro capite la Cina è al 127° posto nella classifica della Banca mondiale, dopo l'Angola e l'Azerbaigian.

La Cina rimane quindi un paese in via di sviluppo. Gli economisti ritengono che non potrà tenere a lungo il ritmo di crescita degli ultimi trenta anni. L'anno scorso diversi scioperi hanno portato a importanti aumenti salariali. E questi significano inevitabilmente perdita di competitività e rallentamento della crescita. (traduzione di Andrea De Ritis)

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