I leader europei hanno iniziato a parlare dei “contratti per la competitività e la crescita” di ispirazione tedesca. In realtà l’idea è quella di corrompere i governi riluttanti e indurli a cambiare le loro politiche economiche. Ma potrebbe essere controproducente, ed esiste un approccio migliore.
La proposta avanzata dalla Commissione europea consiste - invece che nell’esortare inutilmente i governi, e prima comunque che un paese arrivi al punto in cui ha bisogno dell’intervento dell’Fmi - nel sostenere le sue riforme con crediti temporanei condizionati. In pratica, la Commissione concorderebbe con il governo un’agenda politica precisa e concederebbe finanziamenti in cambio della sua attuazione.
C’è un valido motivo per scegliere un approccio di questo tipo: le riforme, anche quelle più remunerative per la società nel suo complesso, spesso sono contrastate perché andrebbero a intaccare quelle che gli economisti definiscono “rendite”.
Chi gode di rendite – per esempio perché il mercato in cui opera è chiuso – ha tutte le ragioni per osteggiare un cambiamento. Coloro che trarrebbero benefici da una riforma sono molti di più, ma non sono organizzati e quindi non si battono per la causa. Un modo migliore per superare tali resistenze potrebbe essere acquistare le rendite. Tuttavia i paesi che necessitano di riforme in genere hanno deboli finanze pubbliche. Da qui l’idea di fare affidamento sui soldi degli altri paesi.
Dal loro punto di vista potrebbe essere più conveniente pagare una piccola cifra adesso invece che una molto più grande in seguito. L’assenza di riforme ostacola oltremodo crescita e competitività e può creare problemi di ordine finanziario. Eppure vi sono obiezioni anche a questo: rilevare le rendite potrebbe essere molto dispendioso; le politiche proposte sono terribili; negoziare la politica interna con istituzioni internazionali è un’esperienza umiliante che nessun governo dovrebbe essere disposto ad accettare, a meno di esserne costretto dai mercati. Chi contrasta la riforma potrebbe accusare il governo di essere il lacchè di Bruxelles.
Ma c’è un’opzione migliore. Invece di dire ai governi quello che dovrebbero fare, l’Ue dovrebbe decidere ciò che vuole davvero e quindi pagare tutto ciò serve per ottenerlo, se necessario anche con il contributo degli stati membri. Ma al contempo dovrebbe anche affermare chiaramente che non può spendere per determinati obiettivi se le politiche nazionali vanificano quelle spese. Di conseguenza dovrebbe condizionare la spesa per un dato obbiettivo in un dato paese alle politiche nazionali, non ostacolando il raggiungimento dell’obbiettivo.
Ecco un esempio: presumiamo che l’Ue voglia incoraggiare l’occupazione dei lavoratori più anziani. Potrebbe quindi varare sovvenzioni alle agenzie di collocamento nazionali per aiutarle a ingaggiare i disoccupati over 50 per programmi di formazione e collocamento. Sarebbe tuttavia assurdo sostenere economicamente questo tipo di occupazione se la legislazione nazionale poi lo disincentivasse, per esempio tramite programmi di pensionamento anticipato o benefit particolarmente generosi per le disabilità. Il medesimo approccio potrebbe essere impiegato per altri casi nell’Ue, per esempio per promuovere la mobilità del lavoro.
Efficacia misurabile
La differenza con il contratto di competitività sarebbe triplice. Primo, l’Ue non direbbe ai governi che cosa è bene per loro, ma fisserebbe i propri obiettivi e li perseguirebbe. Secondo, uno schema non prenderebbe di mira un singolo paese, ma implicherebbe di porre grande attenzione su alcuni paesi. Uno schema mirante a porre rimedio alla disoccupazione a lungo termine riguarderebbe necessariamente i paesi nei quali la disoccupazione a lungo termine è elevata. Terzo, i requisiti non prevedrebbero clausole, ma prenderebbero di mira gli specifici impedimenti che ostacolano il raggiungimento di specifici obbiettivi dell’Ue.
Un simile approccio avrebbe insomma obiettivi precisi e se ne potrebbe misurare l’efficacia. Da un punto di vista politico, oltre tutto, sarebbe più appetibile che continuare a essere condiscendenti con i contratti.