Catherine Ashton e il premier cinese Wen Jiabao. Pechino, settembre 2010.

Un guscio da riempire

Non basta varare un enorme servizio diplomatico per diventare un attore globale. Se vogliono realizzare una politica estera comune gli stati dell'Unione dovranno superare i propri interessi e lavorare insieme.

Pubblicato il 7 Ottobre 2010 alle 15:31
Catherine Ashton e il premier cinese Wen Jiabao. Pechino, settembre 2010.

La creazione della diplomazia dell'Unione europea, chiamata nel gergo di Bruxelles Servizio europeo per l'azione esterna (Seae) – un progresso indiscutibile, impensabile solo dieci anni fa – non cambierà molto la situazione attuale. Il trattato di Lisbona, atto fondatore della diplomazia di Catherine Ashton, non definisce la politica estera comune. Del resto, come potrebbe stabilire regole che dipendono dalla volontà politica di governi democraticamente eletti?

Le prime 28 nomine per i posti di ambasciatori Ue in Africa, Americhe, Europa e Asia fanno riflettere. Si tratta senza dubbio di un passo sulla strada di una politica estera comune, ma l'Ue continua a contare troppo poco nel mondo. Non basterà questa rete di 136 ambasciate, anche se dirette da brillanti diplomatici, a risolvere il problema. E neppure l'unità di crisi creata per aiutareAshton, malgrado i rapporti e le analisi di più di un centinaio di eminenti esperti di tutto il continente.

L'Ue è la grande assente dalle principali questioni internazionali. Nei negoziati di pace in Medio Oriente l'Europa non si vede, non è di grande aiuto per gli Stati Uniti nel loro faccia a faccia con Teheran sul programma nucleare e si sta lentamente disimpegnando dall'Afghanistan. Il suo solo successo internazionale è stato quello di favorire il riavvicinamento tra la Serbia e la sua ex provincia, il Kosovo.

Non potendo fare affidamento sull'autorità di un'Unione attiva nel mondo, Catherine Ashton è troppo debole per difendere la posizione europea. Ma di quali mezzi dispone? La sua unica arma è il trattato di Lisbona, il suo unico strumento di pressione è l'annuncio della chiusura di una delle ambasciate dell'Unione europea.

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Fino a poco tempo fa sembrava che l'Ue potesse avere un ruolo di leader nei negoziati sul cambiamento climatico, ma il fallimento del vertice di Copenaghen nel dicembre 2009 ha cancellato qualunque illusione. L'autorità dell'Europa e la sua fiducia in se stessa hanno subito un duro colpo.

I membri dell'Unione, anche quelli più importanti come Germania, Francia e Gran Bretagna, hanno poco peso sulla scena internazionale. La verità è che dopo la seconda guerra mondiale l'Europa e le sue potenze hanno smesso di essere il centro del mondo. L'Ue è oggi al tempo stesso troppo debole per dirigere la politica internazionale e troppo grande per rimanerne ai margini.

Con un pil superiore al 28 per cento del totale mondiale, l'Ue è un gigante economico e un nano politico. Di conseguenza gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l'India o il Brasile preferiscono trattare separatamente con i vari paesi europei piuttosto che con l'Europa nel suo insieme.

Secondo Cornelis Ochmann, esperto in politica estera della Fondazione Bertelsmann, i paesi dell'Ue definiranno in un primo tempo obiettivi comuni in materia di politica estera là dove le differenze tra gli interessi nazionali sono meno marcate. È il caso di una parte dell'Asia, dell'Africa e del Sud America.

La politica europea comune non sarà fatta presso la cancelleria di Angela Merkel, all'Eliseo o al numero 10 di Downing Street. Secondo l'ex presidente della commissione affari esteri del Parlamento europeo, Jacek Saryusz-Wolski, si farà attraverso la cooperazione fra le capitali europeo, l'europarlamento e la diplomazia di Catherine Ashton. Solo così diventerà uno strumento efficace ed equilibrato, in grado di tenere conto degli interessi spesso divergenti dei piccoli e dei grandi paesi, delle istituzioni e dei capi della diplomazia europea.

Coordinamento, non concorrenza

Ochmann constata inoltre l'inevitabile e progressiva regionalizzazione della politica estera europea. È evidente, per esempio, che la Francia, sostenuta dall'Italia o dal Portogallo, sarà sempre molto attiva in Africa e nei paesi del Mediterraneo. Allo stesso modo gli spagnoli e i portoghesi saranno invece molto interessati all'America latina; la Germania e la Polonia (con il sostegno della Francia) si occuperanno invece delle relazioni con la Russia e con i vicini del Partenariato orientale.

E che dire della Gran Bretagna? Una forte presenza nella diplomazia dell'Ue e il fatto che la Ashton sia inglese significano che Londra non sarà forse la forza motrice della diplomazia dell'Ue, ma che non le metterà neppure i bastoni fra le ruote. Prima o poi le politiche regionali diventeranno una sola politica estera comune dell'Ue, anche gli esperti divergono sui tempi. Per alcuni ci vorranno due o tre anni, altri parlano di un decennio.

L'Europa potrebbe svolgere un ruolo importante in molti teatri. In Africa per esempio, dove la Cina investe miliardi nel commercio e nell'industria, mentre l'Europa e gli Stati Uniti spendono miliardi per l'aiuto umanitario e per lo sviluppo. Invece di farsi concorrenza, perché non coordinare gli sforzi in favore delle popolazioni africane? Un modello di cooperazione che dovrebbe essere riprodotto in altre parti del mondo.

Inutile ricordare che l'Unione ha tutto l'interesse a portare a termine l'allargamento neai Balcani. Sempre nel suo interesse è parlare chiaramente con la Turchia e dire se vuole accelerare i negoziati e accettare l'adesione turca, con tutte le conseguenze che questo implica, o interromperli e basare il suo rapporto con Ankara su un partenariato strategico, di cui l'Europa ha certamente più bisogno della Turchia.

L'Unione deve utilizzare appieno il suo potenziale. La diplomazia di Catherine Ashton è una buon inizio, ma adesso bisogna riempire questi canali diplomatici con dei contenuti. L'Europa non può più permettersi di perdere tempo. (traduzione di Andrea De Ritis)

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