La centrale solare di Gemasolar, in Andalusia

Desertec, le lezioni di un fallimento

Sfruttare l’energia solare nel Sahara per rifornire l’Europa di elettricità: un’idea grandiosa, ma che stenta a realizzarsi. Capire gli errori commessi aiuterà a evitare di ripeterli in progetti simili.

Pubblicato il 24 Luglio 2013 alle 10:59
La centrale solare di Gemasolar, in Andalusia

Il progetto traeva forza dalle immagini che evocava. Prima di tutto il sole, che rappresenta la soluzione del dilemma energetico dopo il declino del nucleare. Poi il deserto, che evoca l’immensità, lo spazio, l’infinito – anche in tema di idee. Il progetto Desertec, che si riprometteva di produrre energia elettrica nel Sahara per poi incanalarla verso l’Europa, ha entusiasmato parecchio ed è stato considerato una delle più belle “idee verdi” degli ultimi anni. La frenesia è stata tale che i grandi gruppi sono arrivati in massa: Siemens, Deutsche Bank, Munich Re – una cinquantina di aziende locali o straniere hanno apposto la loro firma al progetto.

Ma il treno partito a tutta velocità sta ora rallentando. Alcuni partner di primo piano si sono tirati indietro; una dei responsabili del progetto [Aglaia Wieland], che intendeva far rispettare la road map, è stata licenziata. Ma allora, l’intero progetto è stato solo un bluff, un’utopia? O è una grande idea rovinata dalla meschinità di alcuni?

Sarebbe un errore vedere in tutto ciò un semplice flop. Perché il progetto Desertec e gli insegnamenti che possiamo trarne prefigurano l’avvenire della politica ambientale e la riuscita o il fallimento di grandi progetti che si trovano alle prese con grandi incognite.

Lezione numero 1: gli ingegneri, i manager e gli scienziati non possono sostituire l’azione politica. Indubbiamente è una tentazione guardare alla carta geografica del mondo o di un paese come a un semplice foglio di carta sul quale si possono tracciare linee a piacere. Chiunque abbia intenzione di concretizzare un simile grande progetto farebbe tuttavia bene a pensare in primo luogo agli attori politici, ai loro interessi, alle frontiere e alle regioni. Sarebbe opportuno coinvolgere nel progetto i residenti locali e i vicini. Finché non si contattano tutti gli interessati per sapere che cosa ne pensano o almeno per comunicare loro che cosa li aspetta, si corre il rischio di crearsi un potenziale nemico: e una manciata di nemici è sufficiente a far naufragare l’intero progetto. In paesi in subbuglio come quelli dell’Africa del nord i partner possono scomparire dall’oggi al domani.

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Lezione numero 2: non si deve confondere la comunicazione con il dialogo e i processo politici. La comunicazione è una grossa macchina che richiede presentazioni in PowerPoint, filmati aziendali, campagne pubblicitarie, volti accattivanti in mezzo a pannelli fotovoltaici, su vetture elettriche o sotto il sole del deserto. Tutto ciò è di competenza degli esperti in comunicazione. Ma la campagna di comunicazione è di successo soltanto se il finanziatore riesce a imporre la propria visione del progetto.

All’origine del processo politico, invece, c’è in genere un compromesso. Proprio come è accaduto nel caso del progetto Desertec: i paesi dell’Africa del nord se serviranno per primi e ciò non è affatto un cattivo compromesso. Se il risultato ottenuto differisce così tanto dal progetto iniziale, almeno lo si deve a coloro che se ne sono interessati in prima persona.

[[Alcuni ecologisti vorrebbero una politica ambientalista di tipo cinese]]: stati autoritari che impongano con la forza il loro concetto di politica. Ebbene, l’esperienza ci insegna che non è mai un unico “cervello” a salvare il mondo, bensì una molteplicità di teste pensanti, che sfornano idee. Certo, è sempre possibile imporre questa o quella tecnologia, ma se si desidera che la politica ambientalista duri, converrà modificare le abitudini legate ai consumi e le mentalità, le strategie dell’innovazione e i processi di produzione.

Lezione numero 3: dare la preferenza a progetti locali, decentrati e reversibili piuttosto che a grandi progetti centralizzati. Se si vuole pensare alla crescita con un approccio intelligente, e quindi rispettoso dell’ambiente, sorge spontanea una domanda: chi decide cosa è intelligente e cosa no? I sostenitori dell’atomo, per esempio, in passato credevano di aver trovato la soluzione per un’energia pulita e inesauribile. Di tutto ciò sono rimasti soltanto problemi: che fare adesso delle centrali obsolete e delle loro scorie?

Energia fatta in casa

Nel suo libro La terza rivoluzione industriale, il sociologo Jeremy Rifkin attribuisce il potere rivoluzionario dell’energia solare alle possibilità che essa offre in materia di decentramento. Ognuno può diventare produttore di energia a casa propria, tanto più che ben presto sarà possibile introdurre cellule fotovoltaiche nelle tegole o nell’intonaco. A quel punto non sarà più necessario far arrivare l’energia elettrica da un altro continente.

I piccoli progetti decentrati non hanno soltanto il vantaggio di essere facilmente adattabili in funzione del contesto, ma permettono altresì di promuovere l’innovazione e di verificarne il grado di accettazione presso l’opinione pubblica in genere.

Lezione numero 4: le grandi visioni danno vita a piccoli progetti e piccole idee. Quello che era iniziato come un progetto da 400 miliardi che puntava a produrre corrente nel Sahara per soddisfare il fabbisogno di energia elettrica in Europa si conclude oggi con semplici centrali elettriche in Africa. Si può parlare di fiasco? Non per le persone che ne beneficiano a livello locale. A volte occorre vedere le cose in grande per raggiungere un obiettivo che valga la pena di essere perseguito. Se il processo è tracciato in piccole tappe successive chiaramente definite, ciò può rivelarsi addirittura un vantaggio. Talvolta è necessario essere radicali nelle proprie visioni, ed è indispensabile essere pragmatici nella loro realizzazione.

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