Londra spacca il fronte contro Assad

Il parlamento britannico ha bocciato la partecipazione di Londra all’intervento contro Assad. Ora per gli Stati Uniti si fa ancora più difficile difendere la propria credibilità.

Pubblicato il 30 Agosto 2013 alle 15:20

Il 29 agosto il parlamento si è concesso il lusso di discutere finché ha voluto della qualità delle prove dell’uso in Siria di arme chimiche e della legittimità di una risposta con la forza. È stato molto meglio discutere che lasciar perdere, perché nessun intervento militare dovrebbe essere intrapreso alla leggera.

Il risultato del voto, tuttavia, è stato catastrofico. Innanzitutto è stato catastrofico per il primo ministro, che ha giudicato male il suo stesso partito. È stato catastrofico per il paese, che ha voltato le spalle alla sua lunga tradizione di schierarsi in prima fila contro la tirannia. È stato una catastrofe per l’alleanza occidentale, lacerata dalla volontà britannica di non unirsi ai suoi alleati. E soprattutto è stato catastrofico per il popolo siriano, che adesso sa di avere ancora meno amici nell’ora del bisogno.

[[L’unica magra consolazione è che il voto britannico non fermerà l’intervento occidentale]]. La verità che pochi sono disposti ad ammettere è che nessun voto alla camera dei Comuni deciderà quando o se il regime del presidente Bashar al Assad cadrà e le sofferenze del popolo siriano avranno fine. L’unico governo occidentale che teoricamente ha un ruolo decisivo in questa crisi è quello degli Stati Uniti.

Quando hanno avuto inizio le rivolte contro Assad era ancora possibile sostenere che gli Usa non avevano alcun interesse strategico vincolante nel loro esito. Ma tutto è cambiato quando Obama ha definito l’uso di armi chimiche una linea rossa, varcata la quale i calcoli americani sarebbero cambiati. Quella linea è stata varcata più volte.

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La prima volta, Obama ha sfruttato i precedenti degli errori dell’intelligence in Iraq nel 2003 per sostenere la necessità di fare maggiore chiarezza e prendere più tempo. Adesso sa di non potersi limitare a ripetere la stessa cosa. Se gli Stati Uniti non reagiranno con determinazione al massacro di oltre mille civili nella Ghouta la settimana scorsa, la sua credibilità di alleato di Israele, Turchia, Giordania e altri importanti attori in quella regione del mondo ne uscirà compromessa, forse irreparabilmente. E altrettanto accadrebbe alla sua capacità di impedire ad altri regimi di utilizzare armi chimiche o di entrarne in possesso.

A Washington come a Londra, i politici dell’opposizione si preoccupano più di riflettere le inquietudini dell’opinione pubblica sull’intervento militare che di presentare un fronte compatto. John Boehner, leader repubblicano alla camera, ha accusato Obama di non essersi consultato in maniera adeguata ed esige una spiegazione dettagliata di tutte le eventuali operazioni.

Ciò stupisce meno in America che nel Regno Unito, tenuto conto degli alti costi che gli Stati Uniti hanno dovuto sostenere in termini di vite umane, per le casse dello stato e nel proprio prestigio nell’ultima dozzina d’anni, combattendo in Asia centrale e in Medio Oriente. In verità, sarebbe davvero strano se la maggioranza dell’opinione pubblica di entrambi i paesi fosse favorevole a un nuovo conflitto armato nella regione a distanza di così poco tempo da quando sono riusciti a ritirare le loro truppe dall’Iraq. In ogni caso, tutto ciò non rende necessariamente giuste le analogie con l’Iraq o necessariamente sbagliato l’intervento in Siria.

Non è un altro Iraq

Vale la pena ripetere che quando gli Usa e i suoi alleati invasero l’Iraq, l’uso di armi chimiche da parte di Saddam Hussein risaliva a molti anni prima e che le prove disponibili sui suoi arsenali illegali non erano documentate. Il contrasto rispetto all’uso recente di gas nervini in Siria è lampante. [[Le prove della colpevolezza del regime nel bombardamento della Ghouta sembrano inoppugnabili]].

Ban Ki Moon, il segretario generale delle Nazioni Unite, ha scongiurato Obama di permettere che i suoi ispettori chiamati a indagare sull’uso dei gas nervini portino a termine il loro lavoro prima di prendere qualsiasi decisione su un eventuale intervento militare. Lo ha fatto non perché crede che gli ispettori riescano a scoprire nuove prove, tali da addossare ad altri la colpa dell’accaduto o a ridurne la gravità, ma per guadagnare tempo e dare “una possibilità alla pace”. Sì, che si dia una possibilità alla pace, con ogni mezzo. Ma i tentativi di arrivare alla pace in Siria con la sola diplomazia finora hanno miseramente fallito.

Dei bombardamenti mirati volti a impedire al regime di Assad di utilizzare di nuovo le armi chimiche e compromettere la sua capacità di farlo non intralcerebbero il proseguimento degli sforzi diplomatici. Nel migliore dei casi, si potrebbe addirittura arrivare a costringere il regime siriano a negoziare. Si vanno palesando vari terribili scenari, compresa una ritorsione da parte dell’Iran contro Israele, ma il peggiore di tutti in questa funesta congiuntura sarebbe che l’America invii apertamente il messaggio che i suoi avvertimenti non significano nulla.

Da Parigi

Hollande: la Francia è pronta

In un’intervista esclusiva a Le Monde, François Hollande affronta la possibilità di un attacco alla Siria dopo il voto del parlamento britannico contro l’intervento. Il presidente francese sostiene che una coalizione internazionale potrebbe essere formata comunque “se al Consiglio di sicurezza non si permette di agire”:

La coalizione avrà il sostegno dei paesi europei. Ma solo alcuni paesi hanno i mezzi per agire adeguatamente. La Francia è una di essi, e la Francia è pronta. La sua posizione sarà decisa a stretto contatto con gli alleati.
Hollande ribadisce che lo scopo dell’attacco non sarà rovesciare Bashar al Assad:
Non sono favorevole a un intervento internazionale che miri a rovesciare il dittatore o a “liberare” la Siria, ma credo che si debba infliggere un colpo a un regime che commette crimini irreparabili contro il suo popolo.

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