Piantiamola con gli Stati Uniti d’Europa

Se l’Ue vuole sopravvivere dovrà fare chiarezza sui propri obiettivi. Il punto d'arrivo non deve essere una federazione, ma un'unione costituzionale e ben delimitata.

Pubblicato il 5 Dicembre 2013 alle 16:48

Il 22 maggio 2014 si svolgeranno le prossime elezioni europee, che promettono di trasformarsi in una resa dei conti: non è affatto escluso infatti che il populismo di sinistra e di destra, che non vuole che l’Europa si allarghi sempre più, si affermi come una forza influente nel parlamento europeo. Se i politici dei partiti di centro non prospetteranno chiaramente la loro concezione di Europa per il futuro, il populismo si potrebbe rivelare l’unica alternativa politica. Ecco quattro pilastri sui quali potrebbe poggiarsi una diversa configurazione dell’Europa.

1.

L’unificazione europea si è basata per molto tempo sulle frontiere interne (con la famosa idea di “mai più guerra” ), ma nei prossimi decenni si concentrerà sempre più sulle frontiere esterne. A motivare l’integrazione è ciò che si colloca fuori dal continente, perché il vecchio continente non occupa più il medesimo posto in questo mondo completamente diverso. Quando l’Europa chiede aiuto a paesi come India, Brasile e Cina per superare la crisi monetaria, si comprende che è cambiato qualcosa di fondamentale. Una nuova idea di Europa, pertanto, deve prendere il via non più a Berlino, ma a Pechino; non più a Parigi ma a São Paulo.

2.

Questo sguardo sull’estero ci fornisce anche un’altra informazione fondamentale per una storia dell’Europa rivolta all’avvenire. Prendiamo in considerazione per esempio l’indice dello sviluppo umano. I primi cinque paesi classificati nel 2012 sono nell’ordine Norvegia, Australia, Stati Uniti, Paesi Bassi e Germania. Il Belgio si è collocato al 17esimo posto, la Francia al 20esimo, il Regno Unito al 26esimo. A questo riguardo i paesi Brics si sono distinti invece per le loro performance scadenti: la Russia si è piazzata al 55esimo posto, il Brasile all’85esimo, la Cina al 101esimo e l’India addirittura al 136esimo posto. L’indice di corruzione prospetta un quadro della situazione alquanto simile: i paesi occidentali ne escono molto meglio rispetto ai Brics.

Così, poco alla volta, scopriamo la vitalità nascosta della maggior parte delle società europee. A confronto, non soltanto esse sono molto egualitarie, offrono buoni standard di vita, sono caratterizzate da poca corruzione e il loro è uno stato di diritto che funziona ragionevolmente bene. Purtroppo, quando si discute di Europa spesso non si fa menzione di questa prospettiva comparativa, anche se in realtà essa consente di svelare la vera qualità delle nostre società.

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3.

Il grande interrogativo di questi tempi è capire se questa vitalità nascosta dell’Europa non risieda anche nella diversità che caratterizza il continente. Tale questione dovrebbe essere il tema centrale del dibattito alle prossime elezioni del parlamento europeo. L’Europa deve cercare di diventare una federazione oppure gli stati nazionali devono conservare la loro importanza fondamentale?

Nella sua autobiografia intitolata La svolta, storia di una vita, Klaus Mann scrive a proposito di questa diversità: “Questo è il duplice postulato che l’Europa deve riconoscere per non soccombere: occorre conservare e approfondire la coscienza dell’unità europea (l’Europa è un tutto indivisibile), ma al tempo stesso è indispensabile mantenere viva la diversità europea degli stili e delle tradizioni”.

Bisogna dirlo forte e chiaro: un’Unione europea con gli attuali ventotto stati membri non potrà mai diventare gli Stati Uniti d’Europa. E tantomeno deve auspicare di diventarlo. L’Unione non ha lo scopo di mettere fine agli stati nazione, ma al contrario di mantenere tali stati nella loro specificità di democrazie, di stati di diritto, di stati assistenziali vivibili. E noi dobbiamo sottrarci alla scelta semplicistica a cui alcune persone vorrebbero ridurre ogni riflessione sull’Europa, ovvero quella di uno stato federale o una zona di libero scambio e basta.

In altre parole: abbiamo bisogno di una costituzione per l’Europa nella quale le competenze dell’Unione siano definite in modo circoscritto. Ciò non esclude che in futuro l’integrazione prosegua, ma in abbinamento a una scelta costituzionale consapevole. Soltanto quando questa stabilità sarà ottenuta all’interno delle frontiere interne, le frontiere esterne comuni potranno beneficiare della dovuta attenzione.

4.

Non possiamo chiudere le nostre riflessioni sulle frontiere d’Europa senza parlare in modo più approfondito dei limiti da porre all’allargamento dell’Unione. Dalla fine degli anni sessanta “regioni periferiche” sempre nuove hanno continuato a essere aggiunte al vecchio nocciolo centrale continentale. La questione ora è capire in che misura questo processo può continuare senza che quel nocciolo centrale inizi a indebolirsi.

Se facessimo ora un bilancio della situazione attuale, sarebbe chiaro che i limiti dell’allargamento sono stati raggiunti. Né la Turchia, né le repubbliche ex sovietiche come la Georgia, l’Ucraina e la Russia stessa devono sentirsi dire entro i prossimi venti anni che un’adesione all’Unione sarebbe possibile. In realtà lo sanno tutti, ma nessuno osa dirlo apertamente. I paesi facenti dell'ex Jugoslavia che non sono ancora entrati a far parte dell’Unione, come la Serbia, costituiscono un'eccezione. Per la loro collocazione geografica e le loro dimensioni, fanno naturalmente parte di un’Unione che, con trenta paesi membri, ha raggiunto i propri limiti per i decenni a venire.

Questa è una versione ridotta del saggio The hidden vitality of Europe, pubblicato dalla Felix Meritis Foundation in seguito al dibattito del 29 novembre tra Paul Scheffer e lo scrittore austriaco Robert Menasse, che ha pubblicato da poco un suo saggio intitolato Der europäische Landbote.

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