José Sócrates, Jose Manuel Barroso e Angela Merkel alla frontiera tra Polonia e Repubblica Ceca, 21 dicembre 2007

In debito di fiducia

Con l'aggravarsi della situazione del Portogallo e il dibattito sull'espansione del Fondo di stabilizzazione, le tensioni tra i leader sono di nuovo in aumento. Ma senza solidarietà non c'è uscita dalla crisi.

Pubblicato il 19 Gennaio 2011 alle 15:57
José Sócrates, Jose Manuel Barroso e Angela Merkel alla frontiera tra Polonia e Repubblica Ceca, 21 dicembre 2007

Quando il telefono è squillato nella splendente Cancelleria di Berlino, Angela Merkel era impegnata nei colloqui sulla crisi dell’euro. Era il primo ministro portoghese José Sócrates da Lisbona, che chiamava per chiedere aiuto. Il Portogallo pare destinato a diventare il terzo dei 17 paesi della zona euro a crollare sotto il peso del proprio debito sovrano e a dover ricorrere al bailout, quindi dell'approvazione della Germania. Secondo i testimoni José Sócrates è parso disperatamente determinato nelle sue richieste.

Ha chiesto ad Angela Merkel cosa fare e ha promesso che farà qualsiasi cosa: non è disposto a chiedere capitali, dato che un bailout europeo comporta severissime clausole. Stando a ciò che si dice a Berlino, Angela Merkel ha fatto aspettare José Sócrates al telefono, e ha chiesto il parere degli illustri ospiti di alto livello che stava ricevendo in quel momento – Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo Monetario Internazionale, e Giulio Tremonti, lo stimato ministro dell’economia italiano che di recente ha spinto per l’introduzione degli eurobond come soluzione a una crisi che si protrae ormai da un anno. Strauss-Kahn, parlando a nome del Fmi, ha liquidato con poche parole il dilemma di José Sócrates: a suo dire la richiesta del portoghese non ha senso, perché non seguirà nessuno dei consigli che gli sono stati dati.

Questo colloquio, avvenuto la settimana scorsa a Berlino, è la sintesi di quello che una fonte tedesca di alto grado definisce “il grande problema europeo della comunicazione”. Nel bel mezzo di una delle peggiori crisi di tutti i tempi, il livello di fiducia tra i più importanti policymaker è incredibilmente basso, e ciò complica enormemente la ricerca di una via di uscita dai problemi dell’euro.

Questa settimana a Bruxelles i ministri delle finanze dell’Ue si sono accapigliati nell’ennesima disputa sull’euro: come riconfigurare il fondo di assistenza da 750 miliardi di euro predisposto nel maggio scorso. Gli incontri si sono arenati e sono finiti con un nulla di fatto, la Commissione europea ha esortato a procedere a un aumento tempestivo dei fondi a disposizione dei paesi in stato di emergenza, mentre la Germania si è messa alla testa della corrente dei riluttanti, sostenendo che non è necessario rimpinguare il fondo né estenderne le attività di prestito.

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I poli della zona euro vanno in direzioni opposte: la Germania e l’Europa del Nord stanno uscendo con vigore dalla recessione, mentre l’Europa meridionale è paralizzata in un circolo vizioso di debito e deflazione. Tutto ciò, insieme al debito sovrano di una mezza dozzina di paesi, ha messo a repentaglio l’euro, e la situazione è esacerbata dagli attriti tra i leader politici che devono trovare rimedio alla crisi.

Nel giorno stesso in cui Sócrates ha ricevuto il secco rifiuto di Berlino, il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha annunciato a Bruxelles che il fondo di assistenza dell’euro è stato rimpinguato. Angela Merkel e il suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble hanno ufficialmente qualificato l’intervento di Barroso come “non necessario”, ma dietro le quinte l’ufficio della cancelliera ha detto a chiare lettere a Barroso di “chiudere la bocca” e che i 440 miliardi di euro garantiti dai governi della zona euro non sono soldi suoi.

Mercati diffidenti

Critiche di questo tipo si sentono sin dallo scorso anno. Il salvataggio della Grecia a maggio è stato preceduto da uno sgradevole scambio di vedute sui risarcimenti della seconda guerra mondiale. A novembre, quando è venuto il turno dell’Irlanda, Dublino si è lamentata per la derisione delle grandi potenze dell’Ue. Adesso dispiaceri e pressioni toccano a Portogallo e Spagna.

Olli Rehn, commissario Ue per gli affari monetari, ha messo in guardia contro la “compiacenza” tra gli stati membri che rifiutano di riconfigurare il fondo di soccorso. Ancora una volta la Germania è stata oggetto di allusioni maligne riservate. Il governo tedesco però non nutre eccessive preoccupazioni per il Portogallo, dato che considera la sua economia troppo piccola per avere un impatto determinante sul destino dell’euro. La stessa opinione vale anche nei confronti di Irlanda e Grecia. Insieme questi tre paesi producono infatti meno del 5 per cento del prodotto interno lordo dell’Ue, pari a 12 miliardi di euro.

La preoccupazione principale per i maggiori paesi della zona euro è la fiducia che gli investitori internazionali nutrono nella moneta unica. Più che la difficile situazione del Portogallo è la decrescente fiducia, soprattutto negli Usa, nei confronti delle misure di soccorso della zona euro, ad aumentare l'ansia della Banca centrale europea e della Commissione europea di varare un dispositivo di salvataggio più flessibile.

I gestori dei fondi più importanti, specialmente negli Stati Uniti, temono che i giorni dell’euro siano ormai contati, e hanno non sono particolarmente colpiti dalla reazione alla crisi da parte dell’Europa. Per questo stanno svendendo. "I mercati non si fidano dei provvedimenti varati finora: alcuni statunitensi ormai danno pochi anni di vita all’euro", ha detto una fonte di alto grado dell’Ue. (traduzione di Anna Bissanti)

Soluzioni

La ricetta di Olli Rehn

I capi di governo hanno tra le mani un "piano d'insieme" inviato loro dal commissario agli affari economici e monetari per superare la crisi del debito nell'eurozona, scrive Der Spiegel. Nelle undici pagine del documento, Olli Rehn chiede agli stati membri di riformare il loro mercato del lavoro e tagliare le spese sociali. Il nucleo del piano d'insieme traccia invece un progetto di riforma del Fondo europeo di stabilità finanziaria.

La Commissione europea si augura che il Fesf possa disporre realmente dei 440 miliardi messi sul tavolo nel maggio scorso dai governi europei. Per adesso, dato che soltanto pochi paesi raggiungono il livello AAA assegnato dalle agenzie di rating, il Fesf deve pagare importanti garanzie sui debiti e soltanto 250 miliardi possono essere mobilitati per aiutare gli stati in difficoltà. Questo è il motivo per cui ai paesi con il rating migliore, Germania in testa, viene chiesto di contribuire ulteriormente al Fesf, ma è anche la ragione che spinge Berlino ad opporsi a un accrescimento del fondo.

La Commissione propone anche che il Fesf venga impiegato per acquistare le obbligazioni degli stati in difficoltà (coadiuvando così la Banca centrale europea) e per sostenere i paesi che, per alleggerire il proprio debito, cercano di ricomprare le loro obbligazioni che hanno tassi d'interesse troppo elevati. Quando un paese ricorrerà al Fesf, infine, gli interessi saranno meno alti. "Se la Commissione imporrà i suoi piani il risultato sarà prevedibile", prosegue Der Spiegel: "i paesi coinvolti saranno indebitati meno con gli investitori nazionali e internazionali e più con i loro partner" dell'eurozona.

Questi strumenti di salvataggio dovrebbero essere applicati anche alle banche in difficoltà. I governi hanno tempo fino all'inizio di febbraio per emendare le proposte di Olli Rehn.

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