Attualità Migranti sulla rotta dei Balcani 2/5
"Se venite in Ungheria, non dovete prendere il lavoro degli ungheresi!" Cartellone del governo vicino a Szeged.

Nell’Ungheria rinchiusa

Seconda parte del reportage realizzato insieme a Móni Bense vicino a Szeged, dove il governo ha costruito una barriera di filo spinato per impedire ai migranti di entrare nell’Ue e dove gli autori raccontano il lato più scuro delle politiche di Viktor Orbán e quelli che resistono.

Pubblicato il 4 Settembre 2015 alle 14:43
"Se venite in Ungheria, non dovete prendere il lavoro degli ungheresi!" Cartellone del governo vicino a Szeged.

“Il radar termico della frontiera è installato lì”, indica József Szécsi, 62 anni, pastore e agricoltore, un’intera vita trascorsa a Térvár, dove siamo appena arrivati. Il radar che gli interessa di più è però il fiuto del suo compagno, il piccolo e nero Rigó, cane dal nome, corpo e modi simili ad un merlo.

Appoggiato al rastrello con cui sta raccogliendo il fieno, a questo marinaio della Pannonia (come il musicista serbo Djordje Balašević chiama gli agricoltori della Voivodina), basta cacciare un urlo da capitano e Rigó vola subito a raggruppare le 23 pecore. Quando è sparpagliato per tutto questo verde il gregge di József mi ricorda quell’espressione atlantica che si usa nei giorni in cui il mare è pieno di piccolissime onde, provocate dal vento, che creano gomitoli di schiuma sulla superficie dell’acqua. Si dice allora che “il mare è a pecorelle”.

Térvár

Tér in ungherese significa piazza, in serbo sarebbe Trg. Vár invece deriva da Város/Varos, in entrambe le lingue castello, fortificazione, paesino. Sulla “bocca bilingue” che è qualsiasi frontiera, Térvár sarebbe potuto restare su un labbro come sull’altro, è rimasto però sul lato della Terra Bassa ungherese. Sono circa 30 case, alcune a meno di 100 metri dalla linea di confine, 90 persone, probabilmente il posto più calmo da cui siamo passati in tutto il viaggio, un isolotto di pace. Dai boccaporti di queste case, il mare biondo-verde, che è bianco in inverno, continua a estendersi verso nord, punteggiato dalle pecorelle di Rigó e József.

A sud però l’orizzonte verrà tagliato. “Dalla finestra di casa mia vedrò il muro”, dice il pastore. E le pecore o gli altri animali del paesino non potranno più andare a brucare l’erba dei campi vicini. “Anche se è proibito, quest’ultimo inverno, una volta, per caso, ho superato la frontiera perché il pascolo era migliore da quella parte”. A parte questo, continua József, la nuova struttura “non ci cambierà la vita né risolverà nulla perché loro [i migranti] passeranno da un’altra parte, passeranno dal fiume” e, con il rastrello indica in direzione del Tisza, uno dei due grandi corsi d’acqua con cui la Terra Bassa abbraccia la Voivodina.

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Numeri tondi

Lo stesso giorno in cui siamo passati da Térvar, 781 migranti sono stati presi dalla polizia ungherese, proprio accanto al fiume che sta a circa cinque chilometri di distanza da qui. Lungo tutta la frontiera dove si sta costruendo il muro-recinto di Orbán, ogni notte che trascorro a scrivere di questo mio viaggio, circa mille nuovi migranti passano dalla Serbia all’Ungheria, verso l’Unione Europea; e l’onda non smette di prendere volume.

A questo ritmo di numeri tondi, 30 mila persone al mese, in soltanto due mesi, il migrant boom della primavera-estate 2015 supera la statistica di tutto l’anno 2014 in cui circa 50 mila persone, secondo l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, sarebbero passate dalla frontiera serbo-ungherese. “La polizia li prende” conclude József “ma loro non vogliono stare in Ungheria, vogliono andare a Londra, in Germania e in Francia. Siamo abituati a vedere alcuni rifugiati passare da qui. Ho visto anche una famiglia con un bambino molto piccolo. Poveri, scappano dalla guerra che c’è là, nel loro paese. Vengono dall’Afghanistan”.

Incontro

Afghanistan. Ritorno al futuro. In questo esatto momento della nostra storia del presente, a Térvár, il paese che avrà un nuovo muro in cortile, ancora non avevamo incontrato Sharbat, la ragazza afgana di 12 anni, scappata da Kabul con la madre. Potrebbe aver passato la frontiera ieri proprio qui o in un altro posto, dipende da dove i trafficanti, come cani rabbiosi che le mordono le tasche, hanno diretto il gregge di rifugiati di cui lei faceva parte. L'avremmo conosciuta solo più tardi, di sera, in quell’epicentro di incontri di questo viaggio che sarà la stazione ferroviaria di Szeged. Mancavano ancora alcune ore prima che il treno delle 4.36 partisse per Budapest:

"Come ti chiami?"
"Chi sei tu?" – mi risponde lei, sicura ma diffidente, in un inglese perfetto. – "Sei della polizia?"
"No, sono un giornalista."
"Come faccio a sapere che posso crederti?"
"Puoi fidarti di lui." – tenta di annuire Márk Kékesi, cittadino di Szeged, sociologo, 38 anni, uno dei pochi volontari che starà lì per buona parte della notte (nelle settimane seguenti il gruppo sarebbe aumentato), ad aiutare chi aspetta il treno, chi aspetta l’Europa.
Nonostante il sostegno di Márk, lei non rivela la sua identità.
"Cosa stai scrivendo lì su quel quaderno?"
"La tua storia e quella di queste persone che viaggiano con te." – rispondo.
"In tutti i Paesi in cui siamo passate, tutti non fanno altro che approfittarsi della nostra situazione. Non sono solo i trafficanti. Tutti cercano di derubarci, ci cambiano i soldi coi valori sbagliati, ci chiedono moltissimo per un viaggio in taxi…"
"È per questo che sono qui" – interrompe Márk – "perché voglio aiutarvi e perché mi vergogno dei miei compatrioti che se ne approfittano della vostra situazione."
"Com’è che parli inglese così bene?" – cerco di conquistarla.
"Sono stata professoressa di inglese" – dice, orgogliosa.
"Anche io ho insegnato inglese" – ribatte Márk – "siamo colleghi!"
E finalmente Sharbat ci fa il sorriso più grande del mondo (ma comunque non ci dice il suo nome):
"Passavo le notti a leggere fino alle due del mattino. Poi insegnavo inglese agli altri bambini [allora avrà avuto 9,10 anni]. Io e mia madre siamo partite dall’Afghanistan quasi due anni fa. Abbiamo lavorato un anno in Turchia, io e lei, per mettere da parte i soldi per il resto del viaggio. Ora siamo qui, andiamo in Germania. Io voglio diventare medico. I have a dream… I just want a great future!"
"E lo avrai!" – e il sorriso più grande del mondo ora è di Márk - "You’re a smart girl, you will make it!"

Le due Sharbat

La storia sembra ripetersi. Un'altra Sharbat, anche lei a 12 anni, è stata fotografata da Steve McCurry per una delle foto più conosciute di sempre, quella copertina dell’edizione del National Geographic che è diventata un gioiello da collezione e che tutto il mondo ha visto esattamente 30 anni fa, nel giugno 1985. Per molto tempo non abbiamo saputo il suo nome. Era soltanto “la ragazza afgana”, alunna di una scuola in un campo di rifugiati di guerra, il cui sguardo verde era l’unico nome che le potevamo dare.

Nel 2002 Cathy Newman aveva tolto il velo al nome della celebre ragazza afghana, si chiamava Sharbat Gula, e ci ha raccontato la sua storia e Steve McCurry l'ha reincontrata e fotografata di nuovo. “I nomi hanno potere”, scriveva allora Cathy, ma il suo testo ci faceva riportare lo sguardo su quella foto di una ragazza dagli occhi verdi come il mare: “I suoi occhi sfidano i nostri. Ci turbano. Non riusciamo a distogliere lo sguardo da lei”.

A febbraio di quest’anno abbiamo poi saputo che Sharbat Gula, ora di cognome Bibi sulla falsa carta d’identità pachistana in suo possesso, continua a far parte dei 3 milioni di rifugiati di guerra che vivono in Pakistan, originari del vicino Afghanistan. Un'eterna rifugiata. Tra questa e la nostra Sharbat (di cui probabilmente non sapremo mai il vero nome), ci sono tre decenni di differenza ma più o meno la stessa guerra. Sharbat Gula ha gli occhi verdi, la Sharbat di Szeged ha gli occhi castani, non meno belli. Ma non sono i suoi occhi la cosa che più ci cattura, è la sua voce.

Così come lo sguardo della prima Sharbat ha riempito l’obiettivo di McCurry, la forza della voce con cui questa Sharbat dice quello che sogna avrebbe meritato di rimanere immortalata nel registratore di Márk Kékesi che, oltre a essere sociologo, è anche uno dei collaboratori di radio Mi, una radio locale. Mi significa noi, in ungherese e in serbo-croato. E noi non riusciamo a dimenticare la voce di questa donna di 12 anni: “I have a dream… I just want a great future!

Ritorno al presente, per le ultime carezze d’arrivederci sul dorso di Rigó, il cane-pastore con cui a Sharbat sarebbe piaciuto giocare. Lasciamo Térvár e la frontiera oltre le nostre spalle, non senza essere stati identificati, per la prima volta, dalla polizia ungherese e aver incrociato un’auto civile, targata Vienna, con dentro due poliziotti austriaci in divisa. Quando le nostre biciclette non sono diventate altro che due formichine nello specchietto retrovisore delle autoritá, stiamo arrivando a Tiszasziget.

Se Térvár era un isolotto, Tiszasziget è una delle isole principali, forse quella che si disputerebbe con Kübekháza il titolo di perla della Pannonia. Nella terra di tutti - tra la casa e la strada - i giardini più fioriti, pieni di rose di tutti i colori, sono come coralli sul fondo dell’antico mare. Letteralmente sul fondo, perché il punto più basso, in altitudine, di tutta la Terra Bassa - e di tutta l’Ungheria - è qui.

Consultazioni

“Se vieni in Ungheria non puoi rubare il lavoro agli ungheresi! Consultazione nazionale sull’immigrazione e terrorismo.” Alle porte di Szeged, a quindici chilometri di pedalata da Tiszasziget, ci si presenta davanti il primo cartellone gigante del governo che promuove un mega-sondaggio. È solo in ungherese, quindi altamente improbabile che qualcuno dei rifugiati in transito per la ricca Europa del nord possa capire il messaggio che gli viene rivolto. Non è solo in Grecia che si fanno consultazioni decisive per la storia dell’Europa in questa primavera-estate 2015.

Tra maggio e giugno, tutti i cittadini ungheresi hanno ricevuto a casa una lettera del primo ministro Viktor Orbán contenente una dozzina di domande. La risposta poteva essere data gratuitamente via posta o via internet, in modo volontario. Sono seguite risposte anche non ortodosse, come la campagna anti-anti-immigrazione, promossa da Vastagbőr (un blog, il cui nome si potrebbe tradurre con “Pelle dura”) e da Magyar Kétfarkú Kutya Párt (il Partito Ungherese del Cane a Due Code) che, insieme, hanno raccolto donazioni individuali del valore di 33 milioni di forints (circa centomila euro), che sono diventati 80 cartelloni, plasmati sulla stessa forma, ma diversi nel contenuto, che criticano gli slogan del governo.

Ci sono cartelloni in inglese, “Scusateci per il nostro Primo Ministro!”, “Per favore, scusateci se il nostro Paese è vuoto, siamo andati in Inghilterra”, alludendo all’immigrazione degli stessi cittadini ungheresi verso una delle destinazioni più desiderate dai rifugiati; ma ci sono ancora altri contro-messaggi, in ungherese, compreso uno iperbolicamente ironico, “Odiamo tutti!”, o un altro in cui si risente la voce di Stefano I (figura idolatrata dallo stesso Orbán, a convenienza), con una frase del santo-re in lettere ben grandi, “un Paese con una lingua unica e costumi unici è un Paese debole e destinato al fallimento”.

“Queste proteste”, come la campagna anti-anti-immigrazione o altri atti più isolati e spontanei “sono azioni piene di sentimento, ma sono gesti disperati, che vengono da dentro, spinte da una disperazione pura: ma purtroppo non credo che ci sia un qualche tipo di speranza”, ci ha poi detto il direttore del Centro Culturale Grand Café, Zoltan Lengyel, incontrato al cinema Casablanca, nel centro di Szeged. Questo professore di letteratura sente che la disobbedienza civile praticata da alcuni attivisti è il loro modo di continuare a respirare, ogni giorno, nel mezzo di questa “disperazione del presente”.

Ma prima di sintonizzarsi meglio sulle idee (e la musica) di Zoltan, il nostro radar si sofferma su Rita Szlavkovits, giornalista freelance, con cui ci siamo incontrati in un caffè molto vicino alla piazza della cattedrale, dove si stavano facendo le prove per l'ormai prossimo Festival dell’Opera, uno dei più importanti dell’Ungheria.

Rita

Non appena ha appoggiato la sua borsa nera sul tavolo, mi è saltata agli occhi una macchia bianca che, mentre conversavamo, lei cercava di pulire con l’unghia, quando non aveva la mano occupata da una sigaretta. Era la prova che, giorni prima, oltre alla pelle di reporter, Rita aveva voluto vestire quella di cittadina: con altri colleghi e amici ha coperto di vernice bianca le frasi scritte su alcuni di quei cartelloni giganti del questionario nazionale sull’immigrazione e sul terrorismo affissi in città. È stato così, soltanto così, che lei ha deciso di rispondere alle dodici domande di Orbán.

Poi, a Rita, l'eterna domanda: “La storia si ripete?”. “Ho paura. La gente pensava che certe cose non potessero accadere di nuovo in Europa, ma stanno succedendo. Ho perso fiducia nell’Europa, vedendo le reazioni a questa crisi e per questo ho paura. L’Europa ha preso decisioni di logistica militare, come l’ipotesi di bombardare barche vuote [sulla costa libica], ciò significa che non uccidi quella gente, ma uccidi i mezzi che potrebbero salvarla”. Un altro tiro di sigaretta.

“Ho paura anche perché qui in Ungheria il governo può cambiare qualsiasi legge da un momento all’altro e questo dà una sensazione d’insicurezza. Per esempio, sono stati creati alcuni gruppi di “guardie delle campagne”, per le zone rurali, che non sono poliziotti, ma che hanno il porto d’armi e che hanno la possibilità legale di identificare alcune persone. Se esiste una legge che permette di formarli e dà loro il potere di usare un’arma, è chiaro che fa paura”.

La musica lirica sullo sfondo drammatizza quello che stiamo ascoltando. Sembrando indifferente alla musica Rita continua però la sua aria sull'attualità, guardando a un altro muro che si inizia a costruire, il muro della paura di ognuno di fronte all'altro: “Qualche giorno fa, mia figlia ha visto una ragazza africana sull’autobus. Era molto bella e l'ha guardata molto. Sentendosi così osservata, la ragazza africana si è però arrabbiata ed è uscita dall’autobus la fermata successiva”.

E c’è anche il muro creato da ciò che non si conosce: “In Ungheria, nessuno sa cosa stia davvero succedendo in Medio Oriente e nei Paesi da cui arrivano queste persone”. Nell’inverno 2015, la rotta balcanica veniva percorsa da una maggioranza di migranti kosovari, anche se cominciava a esserci una crescente onda dal Medio Oriente, ma nella primavera e nell’estate questo fenomeno si è consolidato e, da allora, la grande maggioranza dei migranti, più di tre quarti, sono rifugiati di guerra dalla Siria, dall’Iraq e dell’Afghanistan. “Se iniziassero a bombardare la mia città, anche io prenderei i miei figli e me ne andrei”, sospira la giornalista.

Con e senza memoria

Rita, poco più di mezzo secolo di vita, ha un sorriso giovane da cui escono parole con la pelle dura. È un sorriso però impaurito, perché chi ha memoria ha paura. Lei non può parlare a sua figlia con lo stesso tono di fiducia nel futuro con cui il poeta voivodiniano e jugoslavo Vasko Popa si rivolgeva alla stessa Rita, ai "figli smemorati, senza peccato originale”, la generazione della pace nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, come questa reporter veterana.

Popa cantava la libertà di quella nuova generazione, sorretta dalle urla dei “Mai Più!”, e la cantava con tale entusiasmo poetico che lo scrittore Claudio Magris, percorrendo queste stesse terre nel suo Danubio, ci avvisava che “quell'assenza di memoria e di consapevolezza del conflitto morale fa assomigliare quei figli a una folla al di qua del bene e del male, amorfa e incolore, senza peccato e senza felicità, innocente e vacua” e, così, paradossalmente, più permeabile alla ripetizione della storia.

Ma Rita non è una figlia smemorata: la nonna era ebrea ungherese, il nonno pescatore della Dalmazia disertore del servizio militare. Nel 1944 – il padre di Rita era ancora bambino – i nonni hanno perso tutto nei bombardamenti di Novi Sad. Sono partiti da là a piedi, con tutta la loro vita in una valigia, e sono venuti in Ungheria (il suo cognome, Szlavkovits, ci aveva già fatto immaginare una famiglia migrante). Nel 1954, il padre della giornalista è stato espulso dall’università ed è rimasto in prigione sei mesi, come prigioniero politico. Quando ha recuperato la pseudo-libertà, è stato obbligato a lavorare come minatore. Tutti i giorni doveva presentarsi presso la polizia. Si è innamorato però proprio della figlia di un poliziotto, la madre di Rita. Nel ’56, dopo la mancata rivoluzione di Ottobre, la giovane coppia scappa in Germania, e va a vivere in un campo di rifugiati.

Quando Rita nasce, nel ’63, la famiglia è di nuovo in Ungheria, grazie a un’amnistia. Però, prima che finisse il “comunismo goulash”, anche Rita avrebbe fatto i bagagli e sarebbe partita a sua volta. Dall’87 all’89 ha insegnato russo dall’altra parte della cortina di ferro, in Oregon, dove aveva accompagnato il marito vincitore di una borsa di ricerca scientifica. Sono tornati in pieno “Autunno dei Popoli”, con la speranza di un nuovo inizio, nell'epoca in cui veniva troppo facilmente annunciata la “fine della Storia”. La vicenda famigliare che Rita potrà un giorno raccontare ai suoi nipoti continua, quando dieci anni più tardi, hanno perso l’ultimo legame con Novi Sad, nella Voivodina serba. Suo padre aveva ancora un negozietto di pesce, finito distrutto dai bombardamenti della NATO, perché si trovava proprio vicino a uno dei ponti attaccati. Li hanno chiamati “danni collaterali”.
No, Vasko Popa, la storia non permette che Rita sia una figlia smemorata.

Le domande di Orbán

Ma quali sono le dodici domande della Consultazione nazionale su immigrazione e terrorismo a cui Rita non ha risposto?

  1. Quanto è importante il diffondersi del terrorismo dato che ne è coinvolta anche la sua vita?
  2. Secondo lei l’Ungheria potrebbe diventare un obiettivo del terrorismo nei prossimi anni?
  3. È d’accordo sul fatto che politiche d’immigrazione sbagliate contribuiscano al diffondersi del terrorismo?
  4. Sapeva che gli immigrati per motivi economici attraversano i confini illegalmente e che ultimamente il loro numero si è ventuplicato?
  5. È d’accordo con l’idea che gli immigrati economici mettono a rischio i posti di lavoro e i mezzi di sussistenza degli ungheresi?
  6. Secondo lei le politiche di immigrazione e terrorismo di Bruxelles hanno fallito?
  7. Sosterrebbe il governo nel suo sforzo di introdurre regolamentazioni più severe in materia di immigrazione, in disaccordo con Bruxelles?
  8. Sosterrebbe un nuovo regolamento che permetterebbe al governo di mettere gli immigrati entrati nel Paese illegalmente in campi d’internamento?
  9. Secondo lei gli immigrati che sono entrati nel paese illegalmente dovrebbero essere rimandati nei loro paesi d'origine il più brevemente possibile?
  10. È d’accordo sul fatto che gli immigrati economici che stanno in Ungheria dovrebbero lavorare per coprire i costi del loro mantenimento?
  11. È d’accordo sul fatto che i migliori modi per combattere l’immigrazione siano dare assistenza economica ai paesi d’origine degli immigrati?
  12. È d’accordo con il governo sul fatto che invece di dare fondi per l’immigrazione si dovrebbero sostenere le famiglie ungheresi e i bambini che non sono ancora nati?

Le risposte di Zoltan

Nemmeno Zoltan Lengyel ha risposto a queste dodici domande del suo primo ministro. Il direttore del Centro Culturale Grand Café si è appena dottorato in letteratura comparata, con uno studio sul concetto di fede in Walter Benjamin, “che è stato un rifugiato anche lui, ai suoi tempi”. Questo giovane intellettuale, professore di letteratura, parla con tono cupo. Sembra ci sia poco futuro nelle sue parole, anche se dice con decisione che non è “un pessimista, ma le cose purtroppo stanno come stanno e loro se ne approfittano della situazione”.

“Questo governo ci prosciuga tutto, facendo leva sugli istinti più basilari delle persone. La gente, in generale, non ha nessuna coscienza storica; pensa soltanto a come ottenere la pagnotta per domani. Per questo, questa propaganda funziona”, sentenzia Zoltan, ampliando poi la cupezza: “Noi stiamo qui a bere una birra e lì, al tavolo di fianco c’è un gruppo di persone rom. Io scommetto che in meno di un anno questo forse non sarà più possibile”.

Questo “qui e lì” è il bar del cinema Casablanca, dove è appena entrato un gruppo di persone per vedere Saul fia (Il figlio di Saul), una storia ambientata ad Auschwitz, girata dall’ungherese László Nemes che si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria a Cannes, qualche mese fa. Il personaggio principale del film è un ebreo ungherese che si chiama Saul Ausländer, cognome che significa, in tedesco, il forestiero, lo straniero – quello di un’altra terra, l’altro.

Come Walter Benjamin

Zoltan Lengyel è anche cantante, polistrumentista e autore di testi dei Médeia Fiai (i Figli di Medea), un gruppo rock sperimentale di Szeged che fa una musica non molto impegnata socio-politicamente, dice lui; una spirale di suoni scuri, sembra a me al primo ascolto. Mi trasporta come una sorta di colonna sonora in loop fino a un'annunciata unhappy end, sia sul piano individuale sia sociale.

Infidel 88, l’ultimo album del gruppo, che molto probabilmente fa parte della playlist di radio Mi, è stato registrato lo scorso inverno, dall’altra parte della frontiera, a Subotica, in Serbia. Tornando a casa di notte dopo le registrazioni, Zoltan faceva in macchina il percorso che alcuni rifugiati allora facevano a piedi. “Camminavano, con i bambini, al bordo dell’autostrada, senza nessuna luce. Era un’immagine triste, apocalittica”.

Così come Walter Benjamin si dice stanco dei bombardamenti, in una delle canzoni scritte e cantate da Zoltan, questi rifugiati sono stanchi delle esplosioni delle guerre di oggi e fanno, proprio come Benjamin, un cammino che, molte volte, non è più un cammino. Così come il filosofo rifugiato che si è suicidato nel 1940, alla frontiera dei Pirenei mediterranei, attraversano l’Europa a piedi perché, proprio come ha scritto George Steiner, un altro rifugiato che sarebbe diventato filosofo, “Europe has been, is walked”. In tutti loro che camminano verso e attraverso l’Europa, l’Europa cammina, senza cammino, persa nel suo stesso GPS. Da qualche parte tra Kabul e Portbou, tra Damasco e Szeged.

Traduzione dal portoghese di Serena Cacchioli

Cet article est publié en partenariat avec #OpenEurope

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