Attualità Migranti sulla rotta dei Balcani 3/5
Stazione di Szeged, luglio 2015. Ai migranti viene distribuita una mappa dell'Ungheria con i campi dove devono dirigersi.

“Abbiamo viaggiato con ogni possibile mezzo fino a qui”

Terza parte del reportage realizzato insieme a Móni Bense vicino al confine con la Serbia, dove il governo ha costruito una barriera di filo spinato per impedire ai migranti di entrare nell’Ue. Alla stazione di Szeged i migranti raccontano il loro viaggio mentre aspettano il treno per Budapest.

Pubblicato il 16 Settembre 2015 alle 07:16
Márton Magócsi/Budapest Beacon  | Stazione di Szeged, luglio 2015. Ai migranti viene distribuita una mappa dell'Ungheria con i campi dove devono dirigersi.

“Dove posso buttare questo mozzicone?” – ci chiede un migrante premuroso, lasciandoci un po’ perplessi.
“Non so, neanche io sono di qui” – gli rispondo.
“Lo butto lì, nel bidone della spazzatura.”
“Io ne ho appena buttato uno a terra” – dice uno degli abitanti di Szeged che sta lì con noi, nella piazza della stazione, dove poco fa la polizia ha lasciato circa 60 migranti in attesa del primo treno dell’alba con destinazione Budapest. Partirà alle 4 e 36, fra circa sette ore.

Dopo aver gettato il mozzicone nella spazzatura il migrante torna, respira e pieni polmoni e poi inizia a parlare. Non si ferma più, non serve fargli domande:
“Volete che vi racconti la mia storia? Sono partito da Damasco un mese fa, all’inizio di giugno. Ho superato vari checkpoint e sono andato in macchina fino a Beirut. Ho preso un volo per la Turchia. Poi la nave fino in Grecia. Sono passato da Atene, Salonicco, Polikastro e Evzonoi. Abbiamo attraversato a piedi la frontiera con la Macedonia. In Macedonia siamo andati in bicicletta, a piedi e in treno. Anche in Serbia siamo andati a piedi e in treno, e anche in macchina. E poi a piedi fino a quando la polizia ungherese ci ha preso. Abbiamo viaggiato con ogni possibile mezzo fino a qui.

Dalla Turchia alla Grecia siamo passati in barca partendo da una spiaggia vicino a Izmir e arrivando all’isola di Chio [Kos]. Io ho pagato 900 dollari [circa 800 euro] ma altri rifugiati arrivati più tardi hanno pagato fino a 1.500 dollari. Abbiamo avuto molta paura. Ci hanno portato di notte tardi. Ci hanno detto di starcene completamente zitti, che i bambini non potevano piangere, che non potevamo nemmeno accendere una sigaretta. Ancora in spiaggia, ci siamo messi tutti il salvagente e siamo entrati in una di quelle imbarcazioni gonfiabili di gomma che – c'era scritto! - era, al massimo, per 30 persone. Eravamo 46 adulti e 4 bambini. Quando siamo entrati tutti, abbiamo chiesto ai trafficanti: ‘Chi di voi viene a guidare la barca?’. E loro hanno risposto che dovevamo guidarla noi. Nessuno di noi sapeva guidare. Ci hanno dato un cellulare vecchio e, dall’alto di una collina da cui ci tenevano d’occhio, ci dicevano, man mano che avanzavamo, al telefono, ‘sinistra, destra’. Più di un’ora dopo siamo arrivati su una spiaggia di Chio. È stato un miracolo, eravamo molto contenti, eravamo in Europa! Volete vedere il video? Ce l’ho qui nello smartphone, guardate…”

Ci mostra il finale di quel diario di bordo visuale, prime luci dell’alba, la barca che arriva su una spiaggia europea. Poi alcune foto: una panoramica della spiaggia inondata da decine o addirittura centinaia di salvagenti di altri migranti sbarcati lì prima di loro; un selfie, lui con un sorriso enorme e l’imbarcazione semi distrutta sullo sfondo.
“Il gommone ha imbarcato acqua verso la fine della traversata, nelle ultime miglia è quasi affondato”, continua lui.

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Qui a Szeged, nella piazza della stazione, passa una bicicletta, poi uno degli ultimi tram della notte. Numero 2, destinazione: Európa liget, Parco Europa.
“Ma il peggio è venuto dopo, in Macedonia, per via della mafia e dei trafficanti. Credo che questi siano d’accordo con la polizia. Siamo stati assaltati sulle montagne. Ma è successa una storia divertente. A un certo punto, il nostro gruppo, circa 10 persone, ha dovuto comprare delle biciclette per continuare. Ne abbiamo comprate tutti, a 125 euro l’una. Poi, quando eravamo pronti per partire, uno di noi ha detto: “Ma io non so andare in bicicletta!”. Sapete cos’è successo? Abbiamo passato mezz’ora a insegnargli come andare in bicicletta. Ha imparato in fretta e poi abbiamo continuato l’avventura. Ha imparato ad andare in bici in mezz’ora!

Alla fine, ieri notte siamo arrivati in Ungheria. Abbiamo pagato 500 euro ai trafficanti in Serbia perché ci facessero passare la frontiera e se arriveremo a Vienna dovremo pagarne altri mille. È tutto molto caro, ma ne vale la pena. Sapete quanto ho già speso fino a qui? Quasi tremila euro. Ma c’è un siriano che è riuscito a comprare un passaporto falso in Grecia, di un greco che gli assomigliava, sapete quanto gli è costato? novemila euro. Un biglietto per un volo diretto in Germania! È stato caro, ma così è stato anche molto più facile. Io avrei fatto lo stesso…”

Gli squilla il telefono. È un amico, di Damasco. Non risponde ma chiede se può approfittare del momento per provare a chiamare casa. Forse infatti a Damasco, dato che l'amico è riuscito a chiamarlo, c'è l'elettricità. Riesce infatti a parlare con la famiglia solo quando lui trova una connessione wi-fi qui in Europa, e loro hanno la luce, là a Damasco, coincidenza rara. Non parla con la madre da tre giorni, lei ancora non sa la storia dell’ultima frontiera. Nemmeno questa volta sarà la volta buona.

“Ieri notte abbiamo superato la frontiera a piedi. Poi c’era una macchina che ci aspettava. Stavamo andando in macchina da poco quando è arrivato un uomo, vestito in borghese e ha puntato una pistola alla testa del nostro autista, che era serbo. Hanno gridato molto tra loro. Abbiamo avuto tutti molta paura. Poi è venuta la polizia e ci ha portati in commissariato. Siamo arrivati lì alle 11 di sera e ci hanno dato qualcosa da mangiare solo all’una di notte. Pane, una barretta di cioccolato e una caramella. Dopo, ci hanno preso le impronte digitali di tutte le dita. Al commissariato ho avuto davvero molta paura. C’era un poliziotto che ha picchiato sulla testa un altro rifugiato siriano e che gli gridava: ‘Ti metto in galera!’. E il mio amico siriano urlava al poliziotto ungherese: ‘E io vado a dire alle Nazioni Unite tutto quello che mi stai facendo!’. Noi stiamo scappando dalla guerra e dalla violenza, non vogliamo affrontare altra violenza. E loro non ci hanno trattato con umanità. Io sono solo un essere umano”.

Prima di accendersi un’altra sigaretta, ce ne offre una. Quel pacchetto gli è costato 5 euro e gliel’ha venduto un poliziotto, al commissariato. Qui fuori, lo stesso pacchetto costa tre euro. Insieme alle sigarette, nella borsa che tiene stretta contro la cintura, tiene un sigaro che ha promesso a se stesso di fumare una volta arrivato alla destinazione finale del viaggio. Erano due sigari, il primo l’ha fumato alla partenza da Damasco.

“Non potevo continuare a stare in Siria. Un mio cugino è stato rapito ad un checkpoint della polizia. Non c’è futuro. Avevo una fabbrica di asciugamani e tovaglie a Duma, vicino a Damasco, quando ero più giovane [adesso ha circa 30 anni, nda]. Mi sono innamorato, mi sono sposato, mi sono sbagliato. Poi è venuta la guerra e mi ha distrutto la fabbrica. Sono riuscito comunque, a partire dal 2011, a fare l'università, in gestione aziendale, mentre nel frattempo lavoravo come amministratore di una banca. Non volevo lasciare la Siria, mia madre è molto triste, io sono il suo unico figlio maschio. Adesso lei e mio padre sono rimasti soli con le mie sorelle. Ma non c’è niente da fare. Io non posso avviare una nuova attività nel pieno di una guerra, in un Paese sotto embargo. Voglio costruire un nuovo futuro, in Europa. Tra 4 o 5 anni voglio avere la nazionalità svedese”.

“Come ti chiami?”
“Mohammed.”
“Io sono Balázs.”
In quest’estate ritagliata dal filo spinato, Balázs Szalai passa di certo più ore alla stazione dei treni di Szeged che a casa sua. Giornalista freelance sulla trentina, collaboratore di Radio Mi e anche attivista del Migszol, un movimento ungherese di solidarietà con i migranti.

Era Balázs a organizzare con pochi altri volontari locali - il gruppo s’ingrandirà nelle settimane successive - la raccolta di cibo per le circa 60 persone, inclusi una dozzina di bambini, che stavano lì a contare le ore di attesa del primo treno verso il futuro. Era Balázs che, sempre con un sorriso, cercava di spiegare quello che sapeva a quegli uomini e a quelle donne, tutti identificati da un braccialetto verde e a cui la polizia aveva dato una lettera, in ungherese, che diceva che avevano 3 giorni per presentarsi a Debrecen, il più grande campo di rifugiati e richiedenti asilo del Paese, un campo già sul punto di esplodere in quel periodo.

Alcuni di loro avevano anche ricevuto un foglio A4, una fotocopia in bianco e nero consegnata dalle autorità con una cartina dell’Ungheria in cui erano segnate Szeged, Debrecen e Budapest. Ma quasi nessuno rispetta l’indicazione ufficiale di andare verso il campo segnato: la destinazione per tutti è prima Budapest e poi Vienna, risalendo il corso del Danubio.

Nell’atrio, l’orologio ha già segnato la mezzanotte. Da qualche minuto Fatma e Ahmed dormicchiano in braccio ai genitori, famiglia scappata dalla regione di Kamishlié, nel Kurdistan siriano, vicinissimo a una delle tante linee del fronte dell’ISIS. In tutta la notte, Fatma, 2 anni, è stata l’unica bambina che abbiamo sentito piangere, e soltanto per qualche secondo. C’è chi dorme in terra, avvolto in una coperta o dentro un sacco a pelo dalla stoffa sporca e rovinata per il viaggio; c’è chi si addormenta seduto, appoggiato a uno dei pilastri che sostengono il pannello delle partenze su cui si legge che il primo treno del mattino è quello che tutti aspettano, delle 4.36 per Budapest; altri si siedono sulle scale, conversano, si distraggono su internet o con giochi sul telefono. Ogni tanto, qualcuno riesce a chiamare la famiglia, dall’altro lato della guerra, e all’improvviso si sente una voce raggiante, ma a volume basso, una timida esplosione d’allegria, sottovoce.

“Parte fra qualche minuto dal binario 1, il treno con destinazione Budapest”, informa l'altoparlante.
Si sente il trafficare dell'ennesima partenza. Le sessanta persone con cui abbiamo passato tutta la notte finiscono di accomodarsi nei vari scompartimenti dell’ultimo vagone. C’è spazio per tutti.
All'ultimo arriva una giovane ungherese trascinando il suo trolley lungo la banchina, una valigia ben più grande di qualsiasi zaino con cui i migranti si portano la vita sulle spalle. Si prepara per salire sull'ultima carrozza del treno che sta per partire; il suo accompagnatore la sta aiutando a caricare la valigia ma vengono fermati dalla voce autoritaria del ferroviere: “Lì no, nell’altro vagone!”. Lei fa altri trenta metri e sale.

Migranti nell’ultimo vagone; ungheresi, europei, negli altri tre, quelli davanti.
Mohammed mi fa un cenno dal suo posto, mentre alcuni dei suoi compagni di viaggio allungano le braccia dai finestrini per una stretta di mano finale a me, a Móni Bense, professoressa e traduttrice, che mi sta accompagnando in questo viaggio lungo questo nuovo muro e, chiaramente, a Balázs Szalai che fumava l’ultima sigaretta della notte, la prima del mattino.
Si sente il fischio della partenza, l’ondulazione delle braccia accelera, i sorrisi si moltiplicano. “Goodbye!”, “Thank you!”, "As-salamu alaykum!"...

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