Attualità Cambiamento climatico e rifugiati
Rifugiati somali fuggiti dalla siccità nel Corno d'Africa arrivano nel campo di Dadaab (Kenya), nel luglio 2011.

L’adattamento è la chiave per limitare gli esodi

Le centinaia di migliaia di rifugiati che sono arrivati in Europa negli ultimi mesi scappavano dalla guerra e dalle persecuzioni in Siria, in Afghanistan o in Eritrea. Ma un'onda ancora più importante provocata dal cambiamento climatico potrebbe rappresentare presto una sfida maggiore se non sarà fatto nulla per ridurne l'impatto.

Pubblicato il 25 Gennaio 2016 alle 22:43
Giro 555 SHO/Flickr  | Rifugiati somali fuggiti dalla siccità nel Corno d'Africa arrivano nel campo di Dadaab (Kenya), nel luglio 2011.

Il principe Carlo, Barack Obama, Mary Robinson e Naomi Klein hanno associato il cambiamento climatico a fenomeni quali la migrazione e lo sfollamento.

Nel suo messaggio sullo stato dell’Unione dell’anno scorso, il presidente Barack Obama ha dichiarato che “Nessuna sfida – nessuna- rappresenta una minaccia maggiore per le generazioni future del cambiamento climatico. Se non agiamo con decisione, continueremo ad assistere a pericolosi periodi di siccità e inondazioni, e a enormi sconvolgimenti che possono provocare migrazioni, conflitti e miseria in tutto il mondo”.

Inoltre, molti esperti hanno notato che il riscaldamento globale ha contribuito a scatenare la sanguinosa guerra civile in Siria, obbligando milioni di persone a lasciare la loro patria e quindi alimentando la cosiddetta crisi europea dei profughi. Nel frattempo, prima del vertice parigino sul clima, Naomi Klein aveva chiesto un accordo che riconoscesse “i pieni diritti dei migranti climatici di trasferirsi in luoghi più sicuri”. Viste le conseguenze del summit e le sfide europee causate dall’attuale flusso di rifugiati, vale la pena approfondire il collegamento tra il cambiamento climatico e le migrazioni.

Il clima sta chiaramente influenzando gli spostamenti delle persone. Dopo tutto, i milioni di africani che abitano le zone tra il delta del Mekong e il Corno d’Africa, ad esempio, fanno affidamento ad un clima piuttosto stabile per il loro sostentamento e sono esposti a eventi atmosferici estremi, che stanno peggiorando a causa del cambiamento climatico. Molti vivono in zone soggette all’innalzamento del livello del mare (basti pensare alle condizioni delle isole del Pacifico già al di sotto di esso) e alle inondazioni (la regione bengalese del Sundarbans ne subisce milioni). Inoltre, molti sperano che, sottolineando quanto il cambiamento climatico influisce sui movimenti delle persone, i leader mondiali intervengano per ridurre le emissioni ed evitare il pericolo di aumentare il riscaldamento globale di più di 2°C. L’accordo di Parigi rappresenta un passo importante in questa direzione.

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In ogni caso, per trovare una soluzione allo sfollamento dovuto al cambiamento climatico dobbiamo capire che i collegamenti tra quest’ultimo e le migrazioni sono molto più complessi di un mero rapporto causa-effetto. Gli alti funzionali dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni hanno evidenziato che il cambiamento climatico non è sempre causa diretta dello sfollamento.

Studiosi come Alexander Betts hanno anche evidenziato la multicausalità e complessità del fenomeno della migrazione. Il cambiamento climatico, quindi, è solo uno dei numerosi fattori intersecanti che influiscono su di esso. Inoltre, anche nei casi dei disastri ambientali più estremi, non è detto che tutti decidano di migrare. Spesso, infatti, accade che i più deboli vengano tralasciati, come era successo alle comunità afro-americane più povere colpite dall’uragano Katrina a New Orleans, lasciate sui tetti circondate dall’acqua.

Che si tratti dell’uragano Katrina (2015), del terremoto nel Sichuan (2008) o del periodo di siccità in Siria (2008-2011), l’aspetto più critico riguarda il modo in cui i politici si preparano e rispondono ai disastri naturali. Gli interventi del presidente George W. Bush furono un fallimento di proporzioni epiche e l’inadeguatezza di agenzie federali sottofinanziate, mal equipaggiate e con poco personale, come l’Agenzia federale per l’assistenza nei casi di emergenza, fu evidente.

Nel Sichuan (evento definibile non tanto come un disastro climatico, quanto come un esempio efficace di cattiva gestione politica di una catastrofe naturale), più di 5000 bambini morirono quando le loro scuole crollarono loro addosso a causa della mancata osservanza delle norme edilizie. Nel frattempo, in Siria la Primavera araba, il periodo di siccità e il malcontento, che già damolto covava nel popolo, portarono alla rivolta contro Assad, che a sua volta intraprese una sanguinosa guerra contro il suo stesso popolo, ora aggravata anche dal conflitto con lo Stato islamico (IS).

Il punto cruciale della questione in esame, quindi, è che gli unici che possono determinare chi verrà maggiormente colpito da un disastro naturale sono i leader politici e le strutture economiche e sociali che essi governano, dal momento che il cambiamento climatico è un imprevedibile “moltiplicatore di minacce” a cui siamo costantemente esposti.

È fondamentale, dunque, riconoscere questi fattori politici, in quanto ci aiutano a determinare chi fugge e chi resta. Se inquadriamo il problema semplicemente come uno dei tanti cambiamenti climatici che ha causato sfollamento – a cui spesso ci si riferisce come “rifugiati ambientali” o “migranti ambientali” – rischiamo di formulare delle soluzioni sbagliate. Per esempio, alcuni studiosi e organizzazioni non governative, come Amici della Terra, hanno chiesto un nuovo protocollo internazionale per proteggere e assistere i “rifugiati ambientali”, sottolineando giustamente che gli sfollati a causa di disastri naturali non sono protetti dalla Convenzione dei rifugiati del 1951, che riguarda solo coloro che hanno dovuto lasciare la patria a causa di persecuzioni.
Tuttavia, stabilire una nuova categoria di “rifugiati ambientali” sarebbe estremamente complicato. Dopo tutto, è difficile associare il cambiamento climatico a un evento meteorologico in particolare, ma lo è ancora di più collegarlo agli spostamenti di una certa popolazione. Sarebbe quasi impossibile identificare e aiutare i reali “rifugiati ambientali” in base a questi parametri. Inoltre, indirizzare l’assistenza a questo tipo di profughi ignorerebbe coloro che sono stati evacuati a causa di disastri naturali non collegati ad un cambiamento climatico – come i terremoti di Haiti o nel Sichuan – e tutti quelli che erano già stati ignorati prima. Ciò tralascerebbe anche i bisogni di molti altri che sono fuggiti per evitare il collasso del loro stato, come in Afghanistan e Iran, ma che al contempo non erano protetti dalla convenzione sui rifugiati del 2951. Per questo, dobbiamo ampliare la protezione internazionale a un gruppo di persone molto più ampio del soli “rifugiati ambientali”.

Quindi, cosa dobbiamo fare per aiutare le persone colpite dal cambiamento climatico? È fondamentale che tutti i governi creino dei piani nazionali di adattamento per prepararsi e occuparsi efficacemente degli effetti negativi del cambiamento climatico stesso. Questo adattamento include ogni attività utile, a partire dalla costruzione di dighe fino alla formazione degli agricoltori riguardo le condizioni climatiche in continuo mutamento. Inoltre, gli stati dovrebbero aumentare i finanziamenti per attuare questi adattamenti nei paesi in via di sviluppo più vulnerabili.

A Parigi vi furono dei segni promettenti in questo senso: il Segretario di Stato americano John Kerry ha annunciato che avrebbe raddoppiato i finanziamenti nazionali per l’adattamento a più di 800 milioni di dollari l’anno. Ciononostante, solo il 16 per cento degli attuali finanziamenti pubblici per il clima è destinato a questi progetti di adattamento e vi è un consistente ammanco nei finanziamenti per lo stesso. Tra il 2012 e il 2013, i finanziamenti pubblici si aggiravano attorno ai 23-26 miliardi di dollari (21-24 miliardi di euro), tuttavia i paesi in via di sviluppo avevano bisogno di almeno 70 bilioni di dollari l’anno a partire già dal 2013. Dopo Parigi, quindi, dobbiamo esercitare sui governi più pressione possibile affinché sviluppino e finanzino queste politiche e aiutino i più vulnerabili ad adattarsi al cambiamento climatico.

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