Attualità Rifugiati siriani
Il monumento alla libertà di Dikili (Turchia).

Una nuova casa in Turchia

Dopo l’entrata in vigore dell’accordo Ue-Ankara sul ricollocamento dei rifugiati siriani, molti di loro hanno scelto di rimanere in Turchia. Un reportage nell'ambito del progetto The New Continent.

Pubblicato il 29 Maggio 2016 alle 21:23
Phil Le Gal  | Il monumento alla libertà di Dikili (Turchia).

Con le lacrime agli occhi Muhammad racconta di come suo fratello sia stato decapitato dall’Isis perché voleva abbandonare il gruppo a cui si era unito pochi mesi prima. Muhammad, un ex studente ventisettenne dell’Università di Damasco, lavora come cameriere in un bar di fronte alla stazione Basmane di Smirne. La gente del posto continua a chiamare la zona “Little Syria”, sebbene ormai non si vedano più rifugiati né alla stazione, né attorno al parco della Cultura, e nemmeno nelle vie adiacenti. L’unica prova rimasta del passaggio dei richiedenti asilo che hanno inondato Smirne negli ultimi mesi sono i giubbotti di salvataggio che ancora si notano nelle vetrine.
I bar e i ristoranti vuoti e la relativa calma che si respira attorno alla stazione ferroviaria e allo scalo dei traghetti sono la diretta conseguenza dell’accordo Ue – Turchia: il 18 marzo 2016 i capi di stato e di governo dell’Unione europea e il governo turco hanno siglato un accordo per porre fine all’immigrazione irregolare dalla Turchia verso l’Ue e per istituire dei canali legali di ricollocamento dei rifugiati nell’Unione europea. L’obiettivo è sostituire gli attuali disorganizzati, caotici e pericolosi flussi migratori irregolari con percorsi organizzati, sicuri e legali verso l’Europa per tutti coloro che hanno diritto alla protezione internazionale, nel rispetto delle norme europee ed internazionali.
Secondo l’accordo stipulato, i migranti che hanno già raggiunto le isole greche devono essere rimandati in Turchia, dove deve essere esaminato il loro ricollocamento all’interno dei paesi europei. L’accordo è entrato in vigore il 20 marzo 2016, e il 4 aprile 2016 è stato fissato come primo giorno sia per riportare indietro i migranti arrivati in Grecia dopo il 20 marzo, sia per far partire i primi ricollocamenti.
Un mese dopo, i pochi saltuari migranti che arrivano ancora a Smirne sono immediatamente indirizzati a un punto di raccolta dove viene valutato il loro caso, spiega un operatore (che non ha voluto rivelare il suo nome) dell’Associazione turca per la Solidarietà verso i Richiedenti Asilo e i Migranti (Asam). L’obiettivo principale di questa associazione è fornire sostegno e venire incontro ai bisogni essenziali dei rifugiati e dei richiedenti asilo, ma anche fornire consulenza legale e sociale.
Secondo questo operatore, i migranti siriani e quelli di altre nazionalità ricevono trattamenti diversi. I non siriani vengono condotti a un punto di raccolta noto anche come centro di trasferimento, dove aspettano che il loro caso venga esaminato oppure di essere rimandati nel loro paese d’origine.
I siriani, d’altro canto, vengono trasferiti in una delle 62 città satellite dove è permesso loro di insediarsi. Una volta arrivati, devono registrarsi entro 15 giorni e, dopo un’accurata indagine sul loro passato, che può durare molti mesi, viene rilasciata loro un documento di protezione temporanea, che permette loro di rimanere in Turchia. “Vogliamo principalmente essere sicuri che non abbiano precedenti di criminalità o di addestramento terroristico”, spiega un funzionario del Dgmm (il Göç idaresi müdürlüğü), l’agenzia governativa responsabile per la registrazione dei richiedenti asilo e l’emissione dei documenti di protezione temporanea.
L’ufficio del Dgmm di Smirne, su Sokak Street vicino al bazar Kemeralti, vede un flusso costante di richiedenti asilo che vengono per registrarsi o per ritirare i documenti una volta pronti. Nel giorno in cui visitiamo l’ufficio, una famiglia di cinque persone (che non hanno voluto rivelare i loro nomi o essere fotografati) ci mostrano tranquilli i loro nuovi documenti freschi di stampa, una semplice tessera plastificata in bianco e nero con una foto sbiadita.
Una volta ottenuto questo documento, possono vivere legalmente in una delle 62 città satellite sparse in tutta la Turchia, dove viene fornita loro istruzione gratuita e assistenza sanitaria, nonostante debbano comunque cavarsela da soli per quanto riguarda lavoro e alloggio.

L’Europa non è più l’obiettivo

Il cameriere Muhammad, che vive a Smirne da sette mesi, ha abbandonato l’idea di spostarsi altrove. Dopo l’uccisione di suo fratello, lui e gli altri fratelli hanno intrapreso un pericoloso viaggio verso l’Europa attraverso la Turchia e, dopo diversi tentativi falliti di proseguire per la Grecia, hanno deciso di rimanere in Turchia. Ora che le domande per frequentare università statunitensi o canadesi sono state rifiutate, si è rassegnato a restare in Turchia in attesa che il conflitto in Siria giunga al termine. “Sono, siamo tutti fiduciosi che finisca e che potremo tornare indietro”, dice prima di correre lontano dal nostro tavolo per servire nuovi clienti.
Sono sempre di più i migranti che decidono di fermarsi qui in Turchia. A Çeşme, cento chilometri ad ovest di Smirne sulla costa dell’Egeo, a sole sei miglia dall’isola greca di Chio, fino a poco fa un “hot spot” per migranti diretti nell’Ue, non se ne vede neanche uno in giro. La polizia locale ci spiega che hanno ricevuto ordine di scortare i migranti a Smirne. La guardia costiera, ancora traumatizzata da mesi di rischiosi salvataggi in mare e recupero dei corpi di quelli che sono annegati, ci informa che nelle ultime settimane non sono stati mai chiamati.
La sera del Lailat al-Mi’raj (la notte dell’Ascensione musulmana) incontriamo tre rifugiati siriani. Passeggiano per Çeşme con alcuni colleghi curdi e condividono fra loro dolciumi, come da tradizione durante il Lailat. Come Muhammad, hanno deciso di rimanere in Turchia. Lavorano come operai in una fabbrica di mattoni e ci dicono che per loro è più semplice insediarsi qui: “Diversamente dall’Europa, qui siamo liberi di seguire la nostra religione, le nostre mogli possono indossare l’hijab e ci sentiamo tranquilli a socializzare coi curdi”.
Alcuni turchi si lamentano del fatto che i siriani rendono loro la vita più difficile, poiché accettano di lavorare per un terzo della paga normale. Ci sono addirittura state proteste a Dikili contro un piano per costruire un campo per rifugiati. In ogni caso, i cittadini turchi hanno generalmente dimostrato comprensione e solidarietà verso i migranti.
A Manisa, una delle 62 città satellite che accolgono i siriani, gli abitanti del luogo dicono di non essere infastiditi dalla presenza dei rifugiati e che si sono ben integrati.
Di ritorno a Smirne, incontriamo Burhanettin Kansizoglu, capo dell’Imhad, un’organizzazione musulmana che promuove delle attività educative e culturali. Secondo Kansizoglu, l’Imhad ha contribuito alla creazione di cinque centri per l’istruzione temporanei per i profughi siriani, compresa una scuola a Konak che fornisce corsi regolari, il trasporto e la mensa per 1.800 studenti. Secondo lui sono altrettanti i bambini siriani che non vanno comunque a scuola, a causa dell’insufficienza dei finanziamenti e della carenza di spazi. L’Imhad recluta gli insegnanti fra i profughi e gli studenti seguono il programma ufficiale della pubblica istruzione siriana. A parte gli insegnanti, che ricevono un salario di mille lire turche al mese (circa 300 euro), tutte le persone che lavorano all’Imhad sono volontari.
Beyza Karatas, 16 anni, è una di loro. Lei e i suoi compagni di classe organizzano degli eventi di beneficienza e dei giochi per i bambini siriani. Beyza frequenta un liceo sperimentale musulmano femminile a Izmir dove, oltre ai corsi standard del programma turco, impara l’arabo e l’inglese. La attività parascolastiche includono il kickboxing, il Tae Kwon Do e il tiro all’arco. Lei e i suoi amici vogliono diventare avvocati, medici e piloti di linea. Ma il loro scopo ultimo, dicono in coro, “è salvare il mondo”.

Questo reportage è pubblicato in partenariato con The New Continent, un progetto giornalistico lanciato dal fotografo Phil Le Gal e una piattaforma collaborativa che vogliono documentare le storie delle persone che vivono a cavallo della frontiera dello spazio Schengen.*

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