Prima la Tunisia, poi l'Egitto e infine la Libia. L'Unione europea ha preso un abbaglio nel valutare la stabilità dei regimi, ha reagito tardi e con l'atteggiamento sbagliato alle proteste e quel che è peggio si è mostrata divisa davanti alle rivoluzioni. Il primo errore è ormai accertato. A dire il vero le capitali europee sono più colpevoli rispetto a Bruxelles per una politica mediterranea che si è poi dimostrata inadatta, ma non hanno dovuto rispondere dei loro errori. La lentezza di riflessi può essere comprensibile. La prudenza è l'atteggiamento istintivo del diplomatico, e persino Obama ha dovuto prenderne atto nonostante abbia a disposizione un immenso apparato di politica estera e possegga il carisma necessario per comandarlo.
Il terzo "capo d'accusa", la divisione tra gli europei, è fino a un certo punto inevitabile, perché ciascuno degli stati membri dell'Unione ha la sua storia a sé e i suoi interessi non sempre comuni. Si tratta di un aspetto importante anche se spesso viene dimenticato. Se il punto di partenza fosse l'unità d'intenti non ci sarebbe bisogno né di leader né di istituzioni comunitarie per creare una politica estera comune, ma soltanto di docili funzionari pronti a metterla in atto.
Le istituzioni europee e i leader comuni esistono proprio per creare politiche condivise partendo da interessi separati. Il paradosso che permea il momento storico attuale è dunque del tutto evidente. Per dieci anni ci siamo lamentati che all'Europa mancassero istituzioni di politica estera. L'Alto rappresentante, all'epoca Javier Solana, aveva molta buona volontà ma pochi mezzi e istituzioni molto deboli a disposizione, cosa che lo obbligava a saltare da una crisi all'altra chiedendo aerei in prestito, facendo l'impossibile con un piccolo gabinetto e un budget inferiore a quello che la Commissione europea dedicava alla pulizia degli edifici di rappresentanza.
Ora sembra che le cose siano cambiate. Abbiamo finalmente creato un ministero degli esteri europeo che è tale in tutto e per tutto, tranne che per il nome. Alla nuova istituzione abbiamo poi assegnato un budget enorme, un corpo diplomatico proprio, e soprattutto il potere assoluto che prima era condiviso da tre diverse istituzioni (il Consiglio, la Commissione e la presidenza a rotazione) che si sovrapponevano e si ostacolavano tra loro. Con il trattato di Lisbona l'Europa è una e trina, e l'Altro rappresentante è finalmente plenipotenziario. Ma nonostante tutto la nuova politica non è ancora decollata. Ora che finalmente abbiamo le istituzioni sembra che ci manchi qualcuno che possa comandarle con una leadership adeguata.
Missione impossibile?
Le rivoluzioni arabe hanno messo a dura prova la politica estera europea. A un anno e mezzo dalla sua nomina, le critiche al lavoro di Catherine Ashton (alcune giuste e altre meno) non fanno che aumentare. I media la accusano di essere allergica alla luce dei riflettori, di evitare la stampa e di preferire un discreto ruolo di secondo piano. Anche nelle capitali nazionali non abbonda l'entusiasmo. Pare infatti che in occasione del Consiglio europeo straordinario sulla Libia Sarkozy abbia rimproverato pubblicamente Ashton per la sua passività, senza che nessuno intervenisse per difenderla, nemmeno il suo compatriota David Cameron.
I sostenitori dell'Alto rappresentante fanno notare che le è stata assegnata una missione impossibile: fare il lavoro che prima di lei facevano tre persone e mettere d'accordo 27 ego nazionali che si considerano tutti più capaci di lei. Tutti hanno la loro parte di ragione, e di conseguenza condividono anche la colpa: Ashton non vuole sbattere il pugno sul tavolo e a Sarkozy piace troppo farlo. Davanti al terrore appena scatenato in Siria da Assad, e considerando i precedenti di Tunisia, Egitto e Libia, è evidente che il soldato Ashton corre il rischio di restare isolato tra le linee nemiche.
Per questo è importante organizzare al più presto una missione di salvataggio che salvi quel che resta del suo mandato, che durerà ancora per tre anni e mezzo. In teoria dovrebbero essere i ministri degli esteri dei ventisette a offrirsi volontari per salvare Catherine Ashton e immettere nuova energia nella politica estera europea. Ma sono veramente disposti a farlo? Non sono forse loro, con le loro azioni e le loro omissioni, i principali responsabili della situazione attuale? Presto capiremo fino a che punto [i ventisette] sono disposti a spingersi nei confronti della Siria di Assad, altro paese viziato dalle diplomazie europee, e allora avremo la risposta. (traduzione di Andrea Sparacino)