53esima Biennale di Venezia, "Construire des Mondes". Foto de JEEdwards.

Il carnevale geopolitico di Venezia

Considerata la più prestigiosa vetrina dell'arte contemporanea internazionale, la Biennale di Venezia non interessa molto agli abitanti della città dei Dogi. Secondo Télérama, la mostra è diventata un pretesto per lo sfoggio di potere e ricchezza da parte dei paesi invitati, un evento più geopolitico che artistico.

Pubblicato il 30 Luglio 2009 alle 15:25
53esima Biennale di Venezia, "Construire des Mondes". Foto de JEEdwards.

Il cielo è azzurro. E il mattino, quando il cielo è azzurro, Giovanni compra il giornale e si siede su una panchina di pietra su riva degli Schiavoni, all'ombra di uno dei grandi yacht ormeggiati nel bacino di San Marco. Giovanni ripete ogni volta lo stesso cerimoniale: accende un piccolo sigaro nero e bitorzoluto, lo fuma guardano passare la folla dei turisti e comincia la lettura delle pagine dedicate al calcio. Il suo amico Guido, anche lui pensionato, lo raggiunge un po' più tardi con una canna da pesca. Guido afferma che la decina di grandi cabinati che occupano i posti liberi fra il palazzo dei Dogi e i Giardini, per lo più venuti per l'apertura della Biennale d'arte, attirano i pesci. Mentre Giovanni legge, Guido pesca. La Biennale non li interessa e, se si esclude l'ombra e i pesci che dovrebbero attirare, nemmeno gli yacht.

Alle loro spalle un grande striscione attaccato sulla facciata informa che il cortile della vecchia caserma Cornoldi è trasformato per la durata della Biennale nel padiglione del Principato di Monaco; due militari in uniforme controllano l'entrata. Un po' più lontano sulla riva, risalendo verso il palazzo dei dogi, un altro cartello avverte che la chiesa di Santa Maria della Pietà accoglie il padiglione marocchino. Un numero sempre più grande di paesi che non hanno un padiglione ufficiale nei giardini del Castello affitta palazzi e chiese sconsacrate un po' ovunque nella città. Il giorno prima in un vaporetto stracolmo diretto alla Giudecca, abbiamo sentito una francese che diceva a un'amica: "Vai dai Welsh?" Si riferiva al padiglione gallese, sistemato in un vecchio ristorante dell'isola e affidato all'ex musicista dei Velvet Underground, John Cale.

Così, nell'arcipelago sono disseminati decine di padiglioni provvisori annunciati da grandi cartelloni, nei quali i turisti non osano entrare, e che i veneziani osservano spesso con un occhio critico. La vecchia Scuola Grande della Misericordia nel quartiere di Cannaregio, ad esempio, è occupata dall'artista lituano Zilvinas Kempinas, specializzato nel riciclaggio di nastri magnetici di videocassette, utilizzati in questo caso per costruire un tunnel. Probabilmente l'artista ignora che la scuola, costruita nella seconda metà del Sedicesimo secolo dall'architetto romano Sansovino, richiama l'altra celebre scuola veneziana, quella di San Rocco, concepita da Bartolomeo Bon e terminata nel 1549 da Scarpagnino. Le due signore del quartiere che escono dal padiglione conoscono la storia dell'edificio, l'abilità tecnica e architettonica che rappresenta (la sala delle riunioni del primo piano è la più grande della città dopo quella del palazzo dei Dogi) e sembrano non apprezzare molto né il tunnel né i fogli di alluminio che ricopre il muro sullo sfondo, mentre a pochi metri da qui, nella chiesa della Santa Madonna dell'Orto, si può vedere il Giudizio universale del Tintoretto. L'arte che una società difende e rivendica riflette la qualità delle sue ambizioni.

Lo sviluppo della Biennale, la sua dispersione nella città sembrano inversamente proporzionali all'interesse che i veneziani, asfissiati quasi tutto l'anno dal turismo, gli dedicano. Ma questo non è l'unico paradosso: più il mondo diventa globalizzato, più la biennale diventa una somma di nazionalismi. Il 30 aprile 1895, quando la prima edizione fu inaugurata, c'era un solo padiglione costruito nei Giardini, dove aveva luogo una grande mostra. Il Belgio avrebbe costruito il primo padiglione straniero nel 1907; la Francia lo avrebbe imitato cinque anni dopo. Oggi nei Giardini se ne contano 30, ai quali si aggiungono 35 padiglioni disseminati nella città. Nel 2011 anche il Vaticano ne avrà uno – forse in risposta all'arrivo in forze dei paesi del Golfo Persico (gli Emirati arabi uniti hanno un padiglione, così come Abu Dhabi, la loro capitale politica). Tutti si scontrano in una competizione più politica che artistica, dove si parla soprattutto di influenza, di potere e di ricchezza. Abbiamo assistito alla decadenza di grandi paesi: la Biennale del 1963, che premiava l'americano Rauschenberg piuttosto che il francese Bissière, segnava la fine dell'impero coloniale francese. Abbiamo assistito alla nascita di nuove potenze: la Cina, ospitata adesso in un hangar in fondo all'Arsenale, accanto al padiglione italiano, non tarderà a ottenere l'autorizzazione a costruire un vero padiglione nei Giardini. A suo modo la Biennale di Venezia, attraverso i padiglioni nazionali, è una carta economica e geopolitica del mondo – così quattro anni fa gli organizzatori hanno avuto la "generosa" idea di offrire un padiglione all'Africa, dimenticando che l'Africa non è un paese ma un continente di 54 Stati. Si capiscono meglio quindi le priorità di Giovanni, di Guido e della maggior parte dei veneziani: il campo in cui l'Italia rimane una delle prime potenze mondiali è ancora il calcio.

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L'attenzione dei due amici si concentra sulla classifica drammatica della squadra di calcio locale. Infatti quest'anno il Venezia ha rischiato di scendere nella serie inferiore. La squadra si è salvata per un pelo all'ultima partita con un pareggio in casa della Pro Sesto (Sesto San Giovanni, in Lombardia). Ma questo succedeva dopo la Biennale, e il mondo dell'arte aveva già da tempo lasciato Venezia per la fiera di Basilea, lasciando i Giardini, che i turisti frequentano poco, in balia di piogge torrenziali.

La mostra

Qualche bella sorpresa

"La Biennale di Venezia è incredibile, pochi l'apprezzano ma tutti vogliono parteciparvi", scrive Jan Skřivánek, caporedattore della rivista ceca Art+Antiques. Eppure per il giornalista la biennale di quest'anno è stata diversa: il padiglione ceco e slovacco è stato uno dei più interessanti. "Inserendo degli alberi e dei cespugli all'interno del padiglione, l'artista Roman Ondák ha voluto rompere la frontiera fra la realtà ordinaria 'non artistica' e la galleria d'arte", spiega Skřivánek. "Come se non esistesse un padiglione. Si può interpretare la sua installazione come una critica del concetto di mostra nazionale, come la rappresentazione del padiglione di uno Stato cecoslovacco inesistente".

Il Leone d'oro per il migliore padiglione è stato attribuito agli americani, con l'installazione Hand Circle di Bruce Nauman. Ma il giornalista osserva che i paesi scandinavi, che hanno un padiglione in comune, "hanno ottenuto il maggiore successo di pubblico". Gli elementi decorativi dei loro due padiglioni trasformati in villa di lusso sono opere prese in prestito da collezionisti privati. "I tedeschi hanno fatto parlare di sé affidando il loro padiglione a un inglese che vive a Berlino", racconta Skřivánek. "E come loro abitudine, i russi si sono fatti notare per un'opera molto forte: una moto che attraversa un muro, un spazio macchiato di benzina e di sangue in onore delle vittime della guerra in Cecenia".

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