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Voci contro i regimi

Pubblicato il 7 Agosto 2012 alle 14:16

Per loro si è mobilitato Sting. Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers ha indossato una maglietta con le loro fotografie durante un concerto a Mosca. Musicisti del calibro di Pete Townshend, Jarvis Cocker e Neil Tennant hanno pubblicato una lettera di protesta sul Times. Peter Gabriel e Patti Smith hanno sostenuto l’appello di Amnesty International per la loro scarcerazione e alla fine si è schierata dalla loro parte anche Madonna giunta a Mosca per il grande concerto di martedì 7 agosto.

Il gruppo punk Pussy Riot, sotto processo a Mosca per il reato di “vandalismo per motivi di odio religioso” sta sfidando il potere del Cremlino e sta gettando una luce oscura sulla democrazia nell’era di Vladimir Putin, che il 4 marzo scorso ha ottenuto il suo terzo mandato presidenziale malgrado il movimento di protesta che si è opposto alla sua rielezione. Nadezhda Tolokonnikova, 23 anni, Maria Alekhina 24 anni, e Ekaterina Samutsevich, 29 anni, sono sotto accusa per avere eseguito una controversa performance all’interno della Cattedrale del Cristo Redentore, ballando con il volto coperto da passamontagna colorati e cantando una canzone che critica il sostegno dato a Putin dalla chiesa ortodossa, il cui ritornello recita: “Vergine Maria liberaci da Putin”. Il pubblico ministero ha chiesto tre anni di detenzione in un campo di lavoro.

I giorni scorsi le artiste si sono lamentate per le loro condizioni di prigionia, hanno denunciato di essere state lasciate senza cibo e acqua per dodici ore e di essere costrette a dormire non più di quattro ore a notte: “È una tortura”, ha detto Maria Alekhina, “ma dio è con me e non ho paura”. Ma quello delle Pussy Riot è solo l’ultimo esempio in ordine di tempo di uno storico conflitto asimmetrico tra provocatori musicali e regimi repressivi, da cui raramente il potere esce vittorioso. Lo sottolinea la rivista statunitense Foreign Policy che stila una lista di musicisti che si sono scontrati con i propri governi e sono diventati icone intramontabili.

Il 31 marzo 1964 le truppe fedeli al generale Olímpio Mourão Filho marciarono sulla metropoli costiera brasiliana di Rio de Janeiro, l’inizio di un colpo di stato che rovesciò il governo democraticamente eletto del presidente di sinistra João Goulart e fece precipitare il paese in due decenni di dittatura militare. Quattro anni dopo, un collettivo di musicisti dello stato di Bahia, guidati dai cantanti Caetano Veloso e Gilberto Gil lanciarono Tropicália: ou Panis et Circensis il manifesto di un album che sfidava tutti i generi e ha lanciato un movimento artistico che porta lo stesso nome.

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Negli stessi anni dall’altra parte del mondo dalla Primavera di Praga emergeva il gruppo rock underground dei Plastic People of the Universe. L’arresto e il processo dei membri della band diede vita al movimento per la democrazia e a gennaio del 1977 oltre 200 attivisti politici e intellettuali firmarono una lettera in cui chiedevano al governo ceco maggior rispetto per i diritti umani. La Charta 77 segnò l’inizio della resistenza civile antiregime che 12 anni più tardi sfociò nella rivoluzione di velluto.

Il 1977 è anche l’anno di uscita di Zombie del nigeriano Fela Anikulapo Kuti, pioniere del genere Afrobeat e voce scomoda contro il colonialismo occidentale, la corruzione e il regime militare nel suo paese. Quando morì di Aids nel 1997, Kuti aveva formato un partito politico, aveva cercato senza successo di candidarsi come presidente ed era stato imprigionato due volte da due diversi governi. “Nelle tue canzoni puoi parlare di amore o delle persone con cui andrai a letto“, ha detto una volta, “ma nel mio ambiente, nella mia società... non esiste musica di piacere, niente come l’amore. È più una lotta della gente per la propria esistenza”.

Un’altra icona della musica africana nella lista di Foreign Policy è Hugh Masekela, trombettista anti-apartheid che ha suonato canzoni come l’inno di Nelson Mandela Bring him back home. All’inizio degli anni Ottanta Masekela mise in piedi uno studio di registrazione e una scuola di musica nella periferia di Gaborone, in Botswana, ma fu costretto a fuggire dopo l’irruzione nella zona dei soldati sudafricani. Trascorsi 30 anni di esilio volontario, è tornato a Johannesburg nel 1990, poco dopo la liberazione di Mandela.

L’ultimo e più recente esempio di musica antiregime proposto da Foreign Policy è la colonna sonora della rivoluzione araba:

Poco meno di sei settimane prima che il venditore di frutta Mohamed Bouazizi si desse fuoco davanti all’edificio governativo provinciale nella Tunisia centrale, il rapper 21enne chiamato El Général (nome di battesimo Hamada Ben Amor) ha postato un video musicale sulla sua pagina di Facebook. Era il 7 novembre 2010, il ventesimo anniversario dell’ascesa al potere del presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali; la canzone di El Général, Rais Lebled (presidente della repubblica in dialetto tunisino) era un atto di accusa al regime brutalmente franco e, data la reputazione dei servizi di sicurezza di Ben Ali, incredibilmente rischioso.

Forse è presto per dire se le Pussy Riot riusciranno a scuotere le fondamenta del potere di Putin, ma, come cantava il menestrello delle canzoni rivoluzionarie Bob Dylan: “If your time to you is worth savin’ then you better start swimming or you’ll sink like a stone, for the times they are a-changing” (Se il tempo per voi rappresenta qualcosa forse fareste meglio a incominciare a nuotare o affonderete come pietre, perché i tempi stanno cambiando).

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