In questi giorni, nell’aula 250 del palazzo di giustizia di Oslo, la democrazia e lo stato di diritto sono messi alla prova. Il processo ad Anders Breivik che si è aperto il 16 aprile costituisce infatti una doppia sfida e un esempio.
Una sfida innanzitutto per i norvegesi, che hanno dovuto rivivere il trauma degli attentati del 22 luglio scorso (77 vittime a Oslo e sull’isola di Utøya) e subire l’atteggiamento di sfida di Breivik fin dall’inizio del processo. L’assassino non soltanto non ha espresso alcun rimorso per le sue azioni e ha affermato che sarebbe pronto a ripeterle, ma è stato autorizzato a leggere per 75 minuti le 13 pagine di testo preparate per spiegare le sue ragioni. I cittadini norvegesi, a cominciare dai sopravvissuti e le famiglie delle vittime, devono dimostrare si saper resistere alla tentazione della vendetta, e affidarsi alla giustizia per poi sviluppare gli anticorpi necessari a impedire l’emergere di emuli di Breivik.
Ma il processo è una sfida anche per l’Europa, perché la spettacolarizzazione dell’evento e il carattere della procedura (udienza pubblica, libertà di parola per l’accusato) hanno offerto alle idee di Breivik una cassa di risonanza unica che va al di là della Norvegia. “Un processo è un’occasione d’oro”, aveva scritto Breivik nel manifesto pubblicato su internet prima di compiere il suo massacro. Oggi è innegabile che un buon numero di europei condividano le posizioni dell’attentatore: l’islamofobia, la xenofobia, l’odio verso le élite, i socialdemocratici, i liberali e il multiculturalismo. E raramente in Europa abbiamo l’occasione di vedere espressi questi concetti senza censura né limiti in un tribunale e ritrasmessi urbi et orbi. In diversi paesi europei le dichiarazioni come quelle di Breivik sono infatti perseguibili penalmente per il loro carattere violento e di istigazione all’odio.
All’indomani degli attentati il primo ministro Jens Stoltenberg, esponente dello stesso partito laburista a cui erano iscritti i giovani massacrati a Utøya, aveva dichiarato che la risposta a Breivik doveva passare “per una maggiore apertura e un aumento della democrazia”. “È bello vedere lo stato di diritto funzionare e la società andare avanti”, ha scritto alla vigilia del processo Eskil Pedersen, uno dei sopravvissuti di Utøya. In questo atteggiamento risiede l’esempio norvegese: una società democratica sicura di sé e costruita attorno a uno stato di diritto efficace non teme le parole di chi vuole rimettere in causa i principi su cui si basa, perché dispone degli strumenti legali - e soprattutto culturali - per difendersi. È la lezione che dobbiamo imparare da questa vicenda.