Idee La Francia e l’Ue

L’elezione di Macron non è la vittoria dell’Europa

L'arrivo di un europeo convinto e dinamico all’Eliseo è sicuramente una buona notizia per l’Unione, ma da sola non è sufficiente per salvarla dalle pressioni dei populismi e delle tendenze nazionaliste di vario genere, mette in guardia il direttore di EastWest Magazine.

Pubblicato il 12 Giugno 2017 alle 12:02

Emmanuel Macron è il nuovo presidente della Francia. È finita come tutti i sondaggisti transalpini avevano previsto. Lo spauracchio di una presidenza a trazione Marine Le Pen, e quindi Front National, è scongiurato. E ora analisti e opinionisti scriveranno e diranno che con En marche!, il movimento di Macron, si potrà rifondare l’Europa, che non ci sono più problemi, e via discorrendo. No. L’Europa non è ancora salva, purtroppo. E non lo sarà almeno fino a quando i partiti tradizionali non comprenderanno le loro sconfitte, sancite anche in Francia. Senza questa consapevolezza, l’Europa non sarà mai al sicuro.
Macron, fino a qualche mese fa, non si aspettava nemmeno di diventare presidente. Quando nell’aprile 2016 ha lanciato En Marche! (movimento, non partito, bisogna ricordarlo), non pensava di essere uno dei papabili per l’Eliseo. Certo, sotto sotto qualche speranza la nutriva. Ma non aveva nemmeno preparato un programma politico, come spiegano dal suo entourage. Lo creerà assieme a Jean Pisani-Ferry, fondatore del think tank Bruegel, solo quando ha avuto la piena certezza dei propri mezzi. In altre parole, quando i sondaggi gli garantivano un buon margine per arrivare almeno al ballottaggio nelle presidenziali. Al secondo turno, sarebbe stato più semplice diventare il più giovane inquilino dell’Eliseo. Lui, che entrò in finanza - Rothschild - con il chiaro intento di crearsi un’agenda di contatti da usare in chiave politica. In genere funziona l’opposto, ma non nel caso del trentanovenne di Amiens.
Il giovanotto più arcigno di Francia ha dovuto correre sui carboni ardenti per arrivare all’Eliseo. Prima le critiche sulla moglie, poi quelle sui suoi rapporti con l’élite finanziaria, poi gli attacchi della Le Pen, infine le email hackerate. Quando ha dovuto attaccare, ha attaccato. Quando ha dovuto difendersi, lo ha fatto con stile. Ma c’è un aspetto che più di tutti ha sorpreso gli osservatori esterni. Il fatto che Macron sia pop. Macron, come si discuteva con il collega di Bloomberg View Ferdinando Giugliano, è un populista al contrario. Lui usa slogan come la Le Pen. Con la differenza che quelli di Macron sono positivi e ben argomentati, solidi nei fondamentali, direbbe un analista finanziario. Lui e i suoi strategist hanno compreso che o si comunicava in questo modo oppure le elezioni non si vincevano.
Macron è contro i partiti tradizionali. Ha accusato il candidato dei repubblicani François Fillon di nepotismo. Ed è vero che l’amministrazione pubblica francese è sempre stata piena di casi molto discutibili. Casi laddove il confine fra lecito, legittimo e illecito è davvero labile. Si è proposto quindi come un’alternativa rispetto al solito dualismo fra socialisti e repubblicani. Non ha fatto lo stesso Marine Le Pen, che ha saputo svecchiare il Front National al fine di renderlo più accattivante anche al Nord? E non ha fatto lo stesso anche Beppe Grillo con il Movimento 5 Stelle in Italia? Entrambi - Le Pen e Grillo - hanno cercato consenso politico vendendo l’immagine del cavaliere bianco che nel periodo più oscuro della guerra arriva e sconfigge il drago. E in questo caso, il drago era a più teste: disoccupazione, scarsa presenza delle istituzioni europee, sistema monetario imperfetto, corruzione della classe politica, malversazioni finanziarie. L’elenco è lungo, e probabilmente si allungherà ancora nel caso le elites politiche non abbiano la consapevolezza di cui sopra.
È corretto quindi paragonare En Marche! al Movimento 5 Stelle? Tecnicamente sì, perché sono nati entrambi sulla spinta dell’esigenza di raccogliere consenso laddove c’era. Ossia, fuori dai partiti tradizionali. Con la volontà di rinnovare il sistema politico del Paese in cui si agisce, ma anche quella di costruire qualcosa di grande nel lungo termine. Con la grande differenza, tuttavia, che un conto è la distruzione creativa di Macron, almeno sulla carta basata su competenze, merito e preparazione. Un altro è la distruzione improvvisata di Grillo, che non propone - dietro agli slogan - una reale alternativa di governo capace di migliorare l’esistente. Nel primo caso scatta l’evoluzione dello Stato e della società, nel secondo si accelera la corsa verso il declino.
Il rischio più grande per l’Europa è che i partiti tradizionali rimasti, e pure quelli sconfitti, non riescano a capire fino in fondo quanto c’è da imparare attraverso l’elezione di Macron. In molti, come il Partito democratico di Matteo Renzi, sono già saltati sul carro di Macron e di En Marche!, ma è l’errore più assurdo che si possa compiere. Perché la Francia non è l’Italia e perché non esiste, in Italia, un populista non contrario come Macron. Esistono forme di ricerca del consenso elettorale analoghe, ma inserite all’interno di un contenuto politico tradizionale, che quindi di fronte ai cittadini delusi e stanchi fa perdere quell’allure che invece ha avuto Macron in Francia. E la situazione non vale solo per l’Italia, ma anche per gli Stati Uniti. Dinamiche simili si sono osservate anche con Donald Trump, che da outsider del Grand Old Party è riuscito ad arrivare alla Casa bianca a suon di slogan e messaggi anti-establishment. Se torniamo indietro con gli anni, inutile negare che una situazione simile in Italia si è avuta con la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Animali politici fuori dalla sfera politica che arrivano, distruggono l’esistente e ricreano. A volte bene, a volte male, a volte malissimo. Però le dinamiche di mutamento del consenso politico sono quasi sempre queste. Macron riuscirà a risollevare l’Europa dal pantano in cui si trova? No. O meglio, non da solo. La sua carica e la sua determinazione potrebbero essere assai utili per ricreare un nuovo asse franco-tedesco, più bilanciato e più innovativo. Ma senza l’aiuto degli altri Paesi membri, ogni sforzo sarà vano. Finché esisteranno nazionalismi di varia natura, a volte mascherati da preservazione degli interessi nazionali, il sogno europeo non potrà diventare realtà. E così l’Unione europea resterà imperfetta, fragile e vulnerabile.

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