Attualità Ue e Turchia

Fondi europei, autoritarismo e società civile

Da oltre dieci anni la Turchia riceve finanziamenti Ue mirati a favorire le riforme e la democratizzazione del paese. A seguito della deriva autoritaria sono in molti però a chiedersi se abbia senso proseguire su questa strada.

Pubblicato il 13 Luglio 2017 alle 08:49

I rapporti tra la Turchia e l’Ue stanno attraversando un periodo di profonda trasformazione. Per Ankara, ufficialmente candidata dal 2005 ad entrare a far parte dell’Unione, la prospettiva di adesione non appare più verosimile. Il processo, già in fase di stallo da diversi anni, ha subito ulteriori danni a seguito delle posizioni autoritarie assunte dal governo turco. Le stesse tendenze si sono aggravate dopo il tentato golpe dell’estate scorsa, cui è seguita la dichiarazione di uno stato d’emergenza, attualmente in corso.
Nell’ultimo anno il governo di Ankara ha effettuato oltre 150mila licenziamenti e più di 50mila arresti contro quanti ritiene essere coinvolti nel tentato golpe o in altre azioni “terroristiche”. Misure che hanno colpito pesantemente i media, come anche le università e le organizzazioni della società civile, mentre gli spazi per la libertà di espressione sono stati fortemente ridotti. Infine il referendum che nell’aprile scorso ha portato all’approvazione di una controversa riforma costituzionale (con risultati contestati e risicati) e che prevede di accentrare il potere nelle mani del presidente della Repubblica entro il 2019, è considerato l’ultimo tassello della deriva autoritaria del paese.

Negoziati ancora in corso

Tuttavia, nonostante la situazione di crisi tra la leadership turca e alcuni stati membri Ue (tra cui i Paesi Bassi e soprattutto la Germania) i negoziati sono ufficialmente ancora in corso. Per Ankara, sempre più orientata a trasformare il proprio rapporto con l’Ue in un legame commerciale ed economico – soprattutto in vista di una possibile modernizzazione dell’unione doganale – il gruppo dei 28 resta comunque un “obiettivo strategico”. Dal canto suo l’Ue ha altri interessi strategici, legati in primo luogo all’accordo sui rifugiati siglato con Ankara nel marzo dell’anno scorso.
La questione principale che sembra dividere i governi Ue – come scrive Sinan Ulgen, analista di Carnegie Europe – è fino a che punto l’ampliamento della dimensione commerciale con la Turchia sarà condizionato da considerazioni legate ai diritti umani e alle norme democratiche. Il rapporto annuale della Commissione per gli affari esteri (Afet) del Parlamento europeo pubblicato il 20 giugno scorso ha criticato duramente le recenti misure repressive registrate in Turchia, invitando i governi nazionali dell’Ue e la Commissione europea a “sospendere senza indugi i negoziati di adesione della Turchia nel caso in cui il pacchetto di riforme costituzionali venga implementato senza modifiche”, perché in disaccordo con i criteri di Copenhagen e non rispettoso dei fondamentali principi di separazione dei poteri, come già evidenziato dalla Commissione di Venezia. Tra le raccomandazioni rivolte alla Commissione europea anche quella di considerare gli sviluppi registrati in Turchia al momento della revisione di metà periodo dello Strumento di assistenza di pre-accesso (Ipa).

Fondi Ue pre-adesione

Proprio sui fondi Ipa ricevuti dalla Turchia a partire dal 2007 in qualità di paese candidato Ue si sta sviluppando un nuovo dibattito pubblico. La Corte dei conti europea (Eca) ha recentemente annunciato di aver avviato un'indagine sulle somme destinate ad Ankara negli ultimi 10 anni. La Commissione europea ha assegnato alla Turchia 4,79 miliardi di euro per il periodo tra il 2007-2013. Altri 4,45 miliardi di euro sono stati assegnati per il periodo 2014-2020 (di cui al maggio 2017 sono stati erogati 186 milioni di euro).
Si tratta di finanziamenti che hanno l’obiettivo di facilitare le riforme politiche ed economiche della Turchia in vista della sua adesione all’Ue e che negli anni passati sono stati considerati decisivi per il processo di democratizzazione del paese. Ora, però, considerata la deriva autoritaria del paese, emergono degli interrogativi sull’utilizzo di quelle somme. “L’indagine in corso ha lo scopo di valutare se l’assistenza pre-adesione dell’Ue alla Turchia sia stata ben gestita ed efficace. I settori prioritari su cui verte sono tre: lo stato di diritto e i diritti fondamentali; la democrazia e la governance; l’istruzione, l’occupazione e le politiche sociali”, viene affermato nel comunicato stampa dell’Eca, dove si ricorda inoltre che la Turchia riceve il 40 per cento dell’intera dotazione Ipa.
La questione ha trovato eco anche al parlamento nazionale turco, dove Selina Dogan, deputata del Chp (Partito repubblicano del popolo), ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla destinazione dei fondi. Ma come spiega Cengiz Aktar, senior scholar presso l’Istanbul Policy Center, a Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, sulla questione si era già pronunciato un approfondito studio commissionato nel 2016 dal Parlamento europeo ad esperti esterni, dove veniva affermato che “la comprensione dell’efficacia e dell’impatto dei fondi Ue in Turchia è ancora molto limitata”.

Sostegno cruciale alla società civile

Secondo l’esperto, “la vera domanda da doversi porre non è tanto se ci sia stato un uso appropriato o meno dei fondi ma, considerato il rapporto attuale tra la Turchia e l’Ue, a cosa servano ora i fondi Ipa”. “I fondi non riescono nemmeno ad essere utilizzati interamente perché la Turchia non è in grado, o meglio non vuole presentare progetti validi. Ankara vorrebbe utilizzare i finanziamenti in maniera libera, ma naturalmente le norme Ue non permettono una cosa simile e quindi molti fondi restano inutilizzati. È anche per questo motivo che una parte dei fondi Ipa sono stati adoperati per finanziare lo strumento di 3 miliardi di euro previsto dall’accordo Ue-Turchia sui rifugiati”, aggiunge l’esperto.
Tuttavia, un settore che negli anni passati ha avuto un importante sviluppo proprio grazie ai finanziamenti di preadesione è quello della società civile in Turchia. “I fondi Ipa rappresentano la fonte principale del finanziamento estero alle organizzazioni della società civile in Turchia. L’accesso delle organizzazioni a questi fondi è stato molto importante, ma la loro affermazione, avvenuta a partire dal 2005, è stata possibile anche grazie al processo di adesione all’Ue, che ha ampliato il loro spazio istituzionale e giuridico, oltre ad aver reso più elastici i meccanismi statali”, spiega a Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa Özge Zihnioglu, docente all’Università Kultur di Istanbul. Secondo la studiosa, i fondi Ipa rappresentano uno dei canali con cui l’Ue è entrata in contatto con la società turca, assieme ad altri programmi come Erasmus+ “che sono molto importanti”, aggiunge la docente.
Anche Cengiz Aktar riconosce l’importanza che i finanziamenti europei hanno avuto nel supportare lo sviluppo delle organizzazioni della società civile in Turchia, benché riuscissero ad accedere “solo ad una minima parte delle centinaia di migliaia di euro impegnate dall’Ue”. Nonostante la società civile sia diventata un settore a sé stante tra quelli indicati nel quadro dei finanziamenti Ipa 2014-2020 – ottenendo quindi a livello teorico la possibilità di avere accesso a maggiori fondi – lo spazio della sua attività risulta ormai molto ridotto.
“Dopo il tentato golpe del 15 luglio scorso sono state chiuse numerose associazioni, organizzazioni e fondazioni che attingevano ai fondi Ipa” ricorda Aktar. L’esperto definisce una “fantasia” l’idea avanzata da alcuni parlamentari europei secondo cui questi finanziamenti dovrebbero essere indirizzati alla società civile. “I fondi non possono essere ammessi se Ankara non lo permette”, spiega il professore, secondo il quale “la Turchia agli occhi dell’Ue ormai non è più tanto diversa da paesi terzi come l’Egitto o l’Algeria”. D’altra parte anche l’Ue sembra aver perso la credibilità agli occhi della società turca. “Prima era grazie al proprio peso che l’Ue riusciva a fare pressione per le riforme in Turchia. Ma muovendosi in maniera utilitaristica, considerando solo i propri interessi l’ha perduto”, aggiunge Zihnioglu. Per la docente “le relazioni tra la Turchia e l’Ue potranno veramente fare dei passi in avanti solo quando entrambe le parti lo vorranno e ci saranno le condizioni per farlo”.
I tempi per fare questi passi avanti non sembrano brevi, a giudicare dai commenti a un articolo apparso sul quotidiano britannico The Guardian, che ha suscitato tra gli osservatori turchi più di una critica. “La Turchia sta cercando di ristabilire i rapporti con l’Ue – e lo fa senza aver ottenuto l’esenzione del visto per i cittadini turchi o [senza] alcun segnale di avanzamento dei negoziati Ue – scrive sul quotidiano l’analista Natalie Nougayrède – L’Ue sembra aver giocato le proprie carte piuttosto bene con questo partner complesso e ostile”. Parole citate con amarezza da Semih Idiz in un articolo su Al-Monitor: “È strano che si dica che l’Ue abbia ‘giocato bene le sue carte’ quando è evidente che sarebbe disposta a soprassedere ai propri valori e pretendere di mantenere le porte dei negoziati aperte ad una Turchia sempre meno democratica per gli interessi strategici dell’Europa”, scrive il giornalista, aggiungendo che quello che in definitiva importa ad entrambe le parti sono “gli affari”.

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Questo articolo è stato realizzato nell'ambito del progetto Il parlamento dei diritti, cofinanziato dall'Unione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e VoxEurop e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione europea.

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